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È la povertà derivante dai periodi di siccità che colpiscono la regione dal 1985 - e quindi la necessità di migliorare la propria condizione economica - la prima spinta all’emigrazione, sia interna all’Etiopia sia verso i Paesi del Golfo.
Se l’esperienza di espatrio delle persone costrette a partire per salvaguardare la propria incolumità in Italia si può facilmente classificare come migrazione forzata e di conseguenza riconoscere a loro lo status di rifugiati, per altre situazioni appare particolarmente complesso individuare in modo chiaro e univoco la causa all’origine della migrazione.
Investimenti in loco che prevedono l’acquisizione di larghe estensioni di terra allo scopo di coltivare prodotti agricoli, da destinare al mercato interno o internazionale, per scopi alimentari umani e animali (food-feed), energetici (fuel) e industriali causano ai piccoli agricoltori la perdita delle loro terre.
In cambio dei terreni lo Stato corrisponde un risarcimento in denaro che spesso però i contadini non sanno come impiegare e come mettere a frutto, non essendo in grado di riconvertire le proprie competenze in agricoltura in capacità commerciali.
Tutto questo alimenta sia flussi di migrazione interna verso le città sia progetti di migrazione transfrontaliera. Al tempo stesso i cambiamenti ambientali e gli eventi climatici estremi, quali le siccità e le inondazioni, possono considerarsi fattori di spinta - spesso connessi allo sfruttamento delle risorse naturali - per una migrazione non agevolmente riconducibile alle categorie abituali nella classificazione della mobilità umana.
Nel rapporto “Dall’Etiopia all’Italia: migranti economici o forzati?”, recentemente pubblicato da ActionAid, si è cercato di esaminare, anche con interviste, il fenomeno migratorio dal Corno d’Africa e in particolar modo dall’Etiopia.