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(Testo e immagini di Michela Chimenti, sostenitrice di ActionAid e giornalista freelance).

 

Se ActionAid chiede di partire e andare in un villaggio in Rwanda a costruire una scuola, come si risponde? Perché la prima a nascondersi dietro al divano del cervello è la coscienza, che dice che sei una brava persona perché hai adottato un bambino a distanza, ma che non lo sei abbastanza perché per mesi dimentichi di mandargli anche solo una cartolina.

Decido di partire per motivi personali, per vedere un Paese che mi avrebbe certamente messo sotto stress e che proprio per questo mi avrebbe impedito di pensare a tutto il resto. Sono partita per capire se veramente le mie preoccupazioni fossero reali, e se certe cose non le capisci in dieci giorni a trasportare mattoni sotto al sole del Rwanda non so cosa possa farlo.

Il viaggio è lungo. Uno di quei viaggi che ti fanno percepire due scali e 18 ore in diversi aeroporti come una settimana in campeggio sotto la pioggia. E quando arrivi mancano altre tre ore di jeep in mezzo al Paese. Abbiamo imparato a conoscerci in fretta, noi 23 (17 sostenitori e 6 operatori ActionAid Italia). Si capiva già dalla riunione a Milano che siamo tutti diversi, molto diversi, che abbiamo età ed esperienze che ci accomunano solo nell’evidente propensione al conoscere, al parlarsi, allo scoprire. E questo basta per rassicurarmi sulla riuscita di questo viaggio. Guardandomi indietro, credo che sia bastato a tutti.

Il progetto del centro d’infanzia nasce da ActionAid UK cui da un anno si è unita ActionAid Italia. È la prima volta che la sede italiana organizza un viaggio di questo tipo coinvolgendo sia membri dello staff che sostenitori. Lo scopo è quello sia del conoscersi e confrontarsi, sia quello di vedere e capire coi propri occhi come l’associazione lavori sul territorio. E nessuno di noi avrà mai più un dubbio circa la forza e l’impatto che i pochi euro al mese che ognuno di noi dona possa avere effettivamente sulla vita di altre persone.

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Il viaggio in jeep da Kigali a Butare è stato un continuo susseguirsi di esclamazioni, commenti a volte banali, a volte giustificati con un poco d’imbarazzo da “dev’essere la stanchezza”. In realtà erano le prime reazioni autentiche all’inizio del viaggio: l’immersione completa nella realtà rwandese. A mano a mano che ci si allontana dalla città, la strada principale è risucchiata da alberi, sempre più scuri, sempre più alti.

È la prima volta in Africa per quasi tutti noi, in quell’Africa che sta al di sotto di Djerba e Casablanca, e l’impatto è quello delle grandi scoperte. Altro che lo scontro di culture. Nella mia testa si susseguono bambini con pance gonfie che corrono scalzi sulla ghiaia, ragazzine che zappano nei campi e camion carichi, carichi e ancora più carichi. Banalità? Sicuramente. Ma la prima volta che la tua idea di realtà trova completa corrispondenza con quello che vedono i tuoi occhi, qualcosa dentro ti ricorda che questa vita esiste ed è tutto vero. Il viaggio continua, la luce cala, i rarissimi lampioni spuntano dalle colline quasi a confondere la tua idea di cosa sia il cielo e cosa sia la terra.

Siamo inghiottiti dal buio ma ai lati della strada ad ogni metro ombre e fantasmi spuntano illuminati dai fari delle nostre auto, con la cadenza di un faro che avvista un gommone in mezzo al mare. La vita non finisce con il crepuscolo o in assenza di lampioni. E allora l’occhio va alle case, pochissime quelle con l’elettricità, più comuni quelle in cui si scorge solo una candela. E non farò alla prima tappa del diario il discorso su cosa sia la povertà. Ma non puoi non chiederti quanto noi siamo responsabili, quanto tu personalmente lo sia, e quanto siano giustificati i tuoi sensi di colpa. E ti chiedi se passeranno mai. Se la differenza fra il bianco e il nero cambierà mai significato. Se mi sentirò mai diversa con una macchina fotografica in mano davanti ad un bambino nero che mi sorride. Se esisterà mai la possibilità di mimetizzarsi abbastanza per raccontare l’Africa in maniera non penosa ma semplicemente reale.

L’arrivo in albergo è quasi liberatorio, si va a cena e si stappano le prime birre locali. Alcuni vanno a dormire, altri riempiono la sala con le risate per sciocchezze, le risate di quelli che hanno pienamente realizzato dove sono, e forse hanno paura, e che pian piano permettono all’incertezza di lasciare il posto alla voglia di uscire e scoprire cose nuove. Non prima di una doccia e qualche ora di sonno.

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