“Mi chiamo Hatab Touray, sono un cittadino gambiano di 26 anni. Ho deciso di partire per la backway (rotta clandestina – ndr) perché vedevo tanti miei coetanei andare scuola, diplomarsi e poi non avere alcuna opportunità. Ho deciso quindi di partire appena terminati gli studi.”
Il viaggio
Il viaggio è stato davvero difficile. Dal Gambia sono andato in Senegal, da lì in Mali – dove ho atteso una settimana prima di ripartire dormendo fuori da un garage, soffrendo il freddo e mangiando solo due volte al giorno per risparmiare. Sono poi ripartito per il Burkina Faso e le cose sono peggiorate notevolmente. Ci fermavano in continuazione ai check point e dovevamo pagare 5.000 CFA (circa 8 euro – ndr) per proseguire. Sono stato tre giorni in un villaggio che si chiama Katchari, vicino al confine con il Niger, tutti quelli che hanno fatto la backway lo conoscono.
Avevo bisogno di soldi e per questo ho cercato di contattare mio fratello che vive in Italia che ha insistito perché tornassi a casa promettendo che mi avrebbe trovato un lavoro. Alla fine si è convinto che non sarei mai tornato indietro e mi ha aiutato. In fondo lui ce l’aveva fatta perché non doveva andare bene anche a me? Finalmente sono arrivato ad Agadez, dove partono i mezzi che attraversano il deserto verso la Libia.
La Libia
Una volta arrivato in città ho trovato il mio “agente”, ma ho dovuto aspettare due settimane prima che il trasporto fosse disponibile. Poi finalmente siamo partiti. Era un lunedì sera, eravamo in sedici. Davanti a noi avevamo una settimana di deserto prima di arrivare in Libia. L’abbiamo trascorsa mangiando biscotti, farina di cassava e qualche sardina. Avevamo una tanica di cinque litri a testa di acqua che dovevamo farci bastare per una settimana. Cinque litri per una settimana nel deserto.
Arrivati in Libia ci hanno separato e siamo rimasti in tre. Degli “arabi” allora ci hanno sequestrati dicendo che i nostri agenti non li avevano pagati e non ci avrebbero liberati fino al pagamento per il nostro trasporto. Ogni giorno ci maltrattavano e minacciavano con una pistola. Stavo perdendo la speranza quando un giorno il mio agente li ha chiamati e immediatamente siamo stati liberati e portati a Tripoli dove, dopo una settimana, mi sono imbarcato.
Il tentativo di attraversare il Mediterraneo
Appena un’ora dopo la partenza abbiamo cominciato a imbarcare acqua e dopo un po’ il motore si è staccato ed è affondato. Siamo stati presi dal panico, la barca ha iniziato a oscillare e a imbarcare sempre più acqua. Molti si sono buttati in mare e sono annegati. Io sono rimasto sulla barca con altri e quando ho visto spuntare i libici pensavo ci avrebbero portato a riva e lasciati liberi.
Siamo finiti invece in una prigione chiamata “fella”. Pensavamo fosse un centro di detenzione dove saremmo rimasti qualche giorno e poi l’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) sarebbe arrivato a liberarci. Sono passati tre lunghi, interminabili, mesi. Ho iniziato a pensare che sarei morto in quella cella. Qualcuno provava a scappare, come Daddy, un ragazzo gambiano come me a cui hanno sparato. Ogni giorno uccidevano persone e altre venivano maltrattate.
Un giorno, stavo ancora dormendo quando vengo svegliato da qualcuno che mi cercava per un lavoro. Chiesi di che tipo e rispose solo: un negozio. Mi chiese se parlavo arabo e alla mia risposta affermativa disse solo che voleva un nero perché altrimenti nessun altro nero avrebbe comprato qualcosa da un arabo. Siccome non si fidava la prima settimana mi ha tenuto chiuso una piccola cella, vivevo come nella prigione.
Quando ha capito che non sarei scappato ha cominciato a farmi fare dei lavoretti intorno alla sua casa. Soddisfatto finalmente mi ha messo a lavorare in negozio, un internet caffè, dove sono rimasto tre mesi. Mi pagava a giornata, guadagnavo circa 10 euro e mi faceva anche cenare. Cominciavo a vedere i primi guadagni tanto che sono riuscito anche a comprarmi una macchina.
Il ritorno in Gambia
Una volta alla settimana chiamavo i miei genitori che mi chiedevano di tornare.
Continuavo a dire che non sarei tornato ma rimanere in Libia non aveva nessun senso oltre ad essere molto pericoloso. Non potendo andare in Italia tanto valeva provare a tornare e così, grazie all’OIM, sono rientrato. Adesso sono contento e devo ringraziare i miei genitori per aver insistito. Oggi faccio il carpentiere e possiedo una macchina. Un giorno un amico viene da me e mi dice: voglio andare per la backway. Gli ho subito risposto di no, di non farlo ma lui, come biasimarlo, mi ha risposto: come faccio? Non ho un lavoro.
Allora gli ho proposto di usare il mio furgone per guadagnare con il trasporto e di pagarmi un affitto mensile. Così è riuscito a comprarsi un’auto che usa come taxi. Mi ha restituito il furgone dicendo di prestarlo anche ad altri, così forse non avrebbero tentato la backway. Se posso aiutare qualcuno a evitare di passare quello che ho passato io lo aiuto volentieri. E così ho fatto. Sto anche insegnando ad alcuni ragazzi a imparare il mestiere di carpentiere. In Libia, quando ero in prigione, assieme ai miei compagni è nata l’idea di impegnarci in un progetto. Volevamo rimanere uniti, dopo tutto quello che avevamo passato, così ci è venuta l’idea di avviare una produzione di vegetali e un allevamento di pollame. Abbiamo chiesto all’OIM di poter unire le risorse dei nostri pacchetti (di reintegro – ndr) e di poter avere della formazione. Siamo tornati dalla Libia senza un soldo in tasca, con delle idee ma bisognosi di un supporto, anche dal nostro governo. Io oggi posso dire di aver creduto in me stesso, di non essermi lasciato abbattere dal fallimento del mio progetto migratorio e nonostante questo sento di poter dire di avercela fatta. Ma quanti non sono stati fortunati come me?»