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(Testo e immagini di Michela Chimenti, sostenitrice di ActionAid e giornalista freelance).
Il viaggio in Rwanda è stato importante per tanti motivi: personali, collettivi, sociali. Uno di questi riguarda il sogno di ogni sostenitore che, nel nostro caso, si è realizzato attraverso uno di noi. Solo uno, infatti, ha avuto la possibilità di incontrare la sua bambina a distanza, quella che da sostenitore conosci solo via posta, quella che vedi nelle lettere che arrivano a casa per aggiornarti sull’adozione e sul progetto, quelle lettere che dovremmo imparare a leggere sempre, con più calma, più attenzione.
Savino, per fortunate coincidenze, ha avuto questo privilegio. La storia di Savino, 74 anni, è la storia di due persone che si amano per anni e poi una viene a mancare e quella che resta, per sopravvivere e sentirsi meno inutile, decide di realizzare un sogno comune, solo per renderle onore, solo per farla sentire per un attimo ancora lì presente. Savino e Gianna si sono amati per trent’anni. Lei è morta più di due anni fa e la bambina rwandese, Uwera, che hanno adottato insieme nel 2004, oggi ha 15 anni. Lui e Gianna di rado usavano il nome Uwera per parlare di lei, troppo difficile e distante. Allora le avevano dato un soprannome. Abitavano all'epoca in Via Rigoli e così per loro Uwera era diventata “la Rigoletta”. Un piccolo trucco del cuore per sentirsi vicini come una famiglia.
Per non sconvolgere gli equilibri già delicati dell’incontro, solo una piccola delegazione ha partecipato. Si è scelto di rispettare l'intimità di due persone lontane da anni e da sempre che per la prima volta avrebbero respirato la stessa aria nella stessa stanza. Presentarsi in 23 persone sarebbe stato eccessivo. Eccessivo nel racconto, nell’occupazione di un tempo e di uno spazio così attesi da non poter rischiare di essere sprecati. Il viaggio in macchina è stato sommesso, fra una lacrima e l'altra, non solo per Savino, ma anche per lo staff stesso di ActionAid che per la prima volta ha potuto vedere coi propri occhi come il lavoro fatto in ufficio arrivi davvero a chi ne ha bisogno e che dietro il codice di un bambino e quello di un sostenitore ci sono persone vere a cui loro hanno in qualche modo cambiato la vita.
Savino ha aperto bocca solo due volte. Una per esprimere i suoi dubbi sul regalo che ha preso a Uwera (un orologio). Non è convinto del colore: “non è più una bambina… Forse avrei dovuto farmi aiutare da una donna a sceglierlo”. L’altra per chiedere, in mezzo a quel paesaggio selvaggio e impervio, quanto impiegasse Uwera ogni giorno a raggiungere la scuola di ActionAid. Si preoccupa proprio come un papà .
Arriviamo a piedi su una stradina dissestata. Uwera indossa vestiti nuovi ed è raggiante, di quella luce che solo chi sta vivendo un momento importate sa circondarsi; imbarazzata, sorridente, vicina a tutti i membri della sua famiglia. Adesso non manca nessuno. I genitori di Uwera ci accompagnano dentro casa: una stanza tre metri per tre senza finestre né pavimento, quattro sedie, una panchetta e un tappeto. Il resto è solo una lunga emozione. Alcuni bambini del villaggio si spingono sulla porta per scoprire di più su questi uomini bianchi. La luce del crepuscolo è l’unica che ci illumina e più diventa buio più sentiamo il suono delle parole di Savino, di Uwera e di sua madre che fra un sorriso di imbarazzo e i tempi della traduzione, si guardano ammirati. La mamma ringrazia e spiega quanto sia importante per lei conoscere l’altro padre della figlia.
Questa frase sancisce, per chi ancora nutrisse dubbi, la sacralità di certi legami: la famiglia non è (solo) quella che è data dalla nascita, ma è anche quella che si sceglie lungo il proprio percorso. Savino e Uwera in qualche modo si sono scelti.
Il ritorno è stato un concerto di sospiri. Tutti, operatori e sostenitori, non possiamo fare a meno di pensare alle conseguenze immensamente positive che può fare un nostro singolo, minuscolo, quasi impercettibile gesto della nostra quotidianità .
Qualche giorno dopo chiedo a Viviana, capo missione ActionAid, cosa le abbia lasciato questa esperienza: “Vivere l’incontro fra Uwera e Savino non è stato importante solo perché immaginavo quanto ci tenesse, ma perché sapevo che importanza avesse quella bambina nella sua vita. Questa è la spinta più grande che ho per portare avanti il mio lavoro”. Continua: “Non mi sento né di consigliare né di sconsigliare l’adozione a distanza, perché è una scelta profondamente personale. Le motivazioni che portano a fare questa scelta sono molteplici, per ognuno è diverso, e la decisione deve essere assolutamente libera. Di sicuro, credo sia un mezzo che arricchisca molto, soprattutto dal punto di vista umano, perché non si supporta solo un progetto generico, ma una persona in carne ed ossa, in particolare un bambino. Il risvolto tangibile dell’aiuto quotidiano, la differenza che può fare un piccolo contributo, sia dal punto di vista economico sia per il cambiamento mentale che porta nelle persone che vivono il progetto sul campo, è uno dei modi per accorgersi di cosa si può fare, anche da lontano. La cosa bella di questo viaggio è che mi ha permesso di conoscere più da vicino umanamente i percorsi delle persone che sono la forza di un’organizzazione come ActionAid che si basa proprio sulla collaborazione reciproca”.
Non ringrazierò mai abbastanza Savino per avermi fatto partecipare a questo pezzo della sua vita.
Quanta strada deve fare il messaggio che scrive un bambino adottato a distanza? Guarda il video: