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I centri antiviolenza e le case rifugio durante la pandemia sono gli unici spazi che hanno continuato a funzionare del sistema antiviolenza. Solo l’enorme impegno dei CAV, anche nelle situazioni più critiche come quelle lombarde, ha garantito alle donne che subiscono violenza di essere supportate.
Durante il primo lockdown le chiamate al 1522 sono inizialmente crollate, per poi più che raddoppiare tra maggio e giugno rispetto al 2019 con 15.280 richieste (+119,6%). Nel mentre, in Lombardia ad esempio, c’è stata una forte riduzione dello staff nei CAV, causata dal dimezzamento del numero di volontarie – generalmente di età medio-alta e quindi a rischio contagio – e dalla malattia o messa in quarantena di operatrici. In aggiunta, i Centri sono stati costretti a turni di lavoro estenuanti. Questo a fronte di ritardi e della mancanza di procedure standard delle istituzioni. Dalla scarsità di mascherine e guanti (distribuiti solo in pochissimi casi dalle istituzioni locali come a Brescia) all’impossibilità di accedere ai tamponi, fino alla mancanza di spazi adeguati per isolamenti fiduciari. Nonostante la circolare inviata a marzo 2020 dal Ministero dell’Interno alle Prefetture per rendere disponibili alloggi alternativi, i centri – ad eccezione di quelli di Pavia - sono stati costretti a ricorrere a bed&breakfast o appartamenti messi a disposizione da conoscenti e privati.
È quanto emerge dal nostro rapporto “Tra retorica e realtà. Dati e proposte sul sistema antiviolenza in Italia”, che monitora i fondi statali previsti dalla legge 119/2013 (la legge sul femminicidio) insieme all’attuazione del Piano antiviolenza 2017-2020.
Il rapporto 2020 si è focalizzato sulla risposta all’emergenza Covid19 in Lombardia, Calabria e Sicilia, mettendo in evidenza i ritardi ormai storici della ripartizione ed erogazione dei fondi dallo Stato alle Regioni, che la pandemia ha reso ancora più gravi.
“Non è tollerabile che le istituzioni si presentino impreparate a fronteggiare un nuovo lockdown. È necessario uscire dalla logica emergenziale per creare un sistema forte e duraturo, che funzioni bene in tempi ordinari e molto bene in tempi straordinari. Con la seconda ondata pandemica e con i nuovi lockdown territoriali, i CAV corrono il rischio di arrivare al limite delle proprie capacità di sopravvivenza e di resilienza. Oggi è necessario istituire un Fondo di emergenza con risorse aggiuntive e prontamente disponibili e Cabine di Regia locali che garantiscano efficacia e coordinamento per le reti territoriali, senza si rischia di negare alle donne una concreta via d’uscita alla violenza” spiega Elisa Visconti, Responsabile del nostro dipartimento Programmi.
Al 15 ottobre 2020, le risorse ripartite dal Dipartimento Pari Opportunità per il biennio 2015-2016 sono state liquidate dalle Regioni per il 72%, il 67% per quelle del 2017. A distanza di 15 mesi, le Regioni hanno liquidato solo il 39% delle risorse 2018, ovvero circa 7,6 mln di euro a fronte dei 19,6 stanziati.
In tempi Covid, per rispondere ai nuovi bisogni delle strutture di accoglienza, la Ministra per le Pari Opportunità il 2 aprile 2020 ha firmato un decreto di procedura accelerata per il trasferimento delle risorse per il 2019 prevedendo la possibilità di usare i fondi destinati al Piano antiviolenza per coprire le spese dell’emergenza sanitaria. Nonostante l’urgenza, a distanza di 6 mesi dall’incasso delle risorse, solo 5 Regioni hanno erogato i fondi: Abruzzo, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia, Molise e Veneto. Nel dettaglio le risorse liquidate per l’annualità 2019 sono pari all’10%. Ad oggi nessun Decreto è stato emanato dal DPO per i fondi antiviolenza 2020.
Alla vigilia dell’elaborazione del nuovo Piano Nazionale, è evidente che quello adottato nel 2017 e reso operativo due anni dopo rivela la sua incompletezza. Le risorse effettivamente impegnate sono insufficienti per coprire le azioni programmate e risultano impossibili da verificare e monitorare.
Se le attività di prevenzione previste fossero state pienamente attuate nel corso degli anni, durante l’emergenza non sarebbe stato necessario l’invio di una circolare ad hoc alle forze di polizia per sensibilizzarle sulla violenza domestica. Infatti, il Codice Rosso rende obbligatoria la formazione sul tema per le forze dell’ordine. Lo stesso discorso vale per le altre azioni di formazione per varie categorie di operatrici e di operatori pubblici e privati. Oppure, se il 1522 fosse regolarmente e capillarmente pubblicizzato, la popolazione intera e le donne tutte sarebbero informate sui servizi a cui chiedere aiuto. Nella fase di lockdown, si sarebbe evitata l’affannosa corsa alla diffusione di un servizio di pubblica utilità.
È necessario assicurare il pieno funzionamento delle reti territoriali inter-istituzionali antiviolenza. Stabilire delle Procedure Operative Standard che definiscano ruoli della rete territoriale e prevedano una Cabina di Regia Operativa Locale. Urgente anche istituire un fondo nazionale per le emergenze immediatamente disponibile per le spese straordinarie. Infine, devono essere potenziate le attività di sensibilizzazione e comunicazione fin dall’inizio dell’emergenza, garantendo ampia diffusione delle informazioni circa l’esistenza e il funzionamento dei centri antiviolenza.
Consapevoli delle difficoltà vissute dai centri antiviolenza e dalle case rifugio abbiamo creato il fondo di pronto intervento #closed4women.
Ventiquattro centri in tutta Italia che in tempi rapidi hanno potuto acquistare dispositivi sanitari (mascherine, disinfettante, guanti), sanificare i locali, dare continuità ai servizi di supporto psicologico e legale, fornire aiuti alimentari, sostenere economicamente le donne che hanno dovuto interrompere percorsi di autonomia e di inserimento lavorativo a causa del Covid19.
189 donne hanno ricevuto sostegno, a loro volta 100 tra figlie e figli a carico. Oggi rilanciamo il Fondo per sostenere questa secondo periodo di difficoltà.