Sono le donne le testimoni di come sia cresciuta la povertà alimentare in Italia dall’inizio della pandemia. Le prime a saltare pasti per permettere ai figli e al resto della famiglia di mangiare, e sempre le donne si fanno carico di rivolgersi ai centri di assistenza per chiedere aiuto e ad affrontare la vergogna e lo stigma sociale. Sono l’81% delle persone intervistate, in un panel rappresentativo della composizione della popolazione che si rivolge agli enti del territorio
“Ho saltato molti pasti perché preferivo che mangiassero loro, se avevo due uova le davo a loro e io non ne mangiavo”.
Così racconta una donna di origine straniera di Baranzate, una delle 53 voci raccolte nel rapporto “La fame non raccontata” che lanciamo in collaborazione con CSV Milano.
Le interviste svolte a chi si rivolge agli enti di assistenza mostrano l’impatto e le caratteristiche della povertà alimentare nel territorio metropolitano di Milano (Corsico, Cinisello Balsamo, Baranzate, Rozzano) insieme agli effetti prodotti dalla pandemia.
Un’emergenza già esistente che si è allargata nel corso del 2020, come dimostra l’aumento delle richieste di aiuto alle quattro associazioni territoriali coinvolte nella ricerca: erano 2.024 le persone aiutate (671 famiglie) del 2019 e sono diventate 3.957 nel 2020 (1151 famiglie) con una crescita del +95%.
Mentre Milano mostra una rapida ripresa economica, la sua provincia resta segnata da una crisi acuta.
Il 63% degli intervistati, infatti, si è rivolto al centro di assistenza prima della pandemia e il 37% durante la pandemia. Persone che si trovavano con entrate minime che con il Covid19 sono scivolate nella povertà alimentare, che non significa semplicemente mancanza di cibo, ma di alimenti di qualità e salutari, di possibilità di scelta. Una questione di dignità per sé e la propria famiglia, che si crepa quando si arriva alla consapevolezza che non ci si può più concedere altro che gli aiuti alimentari.
Disabili, caregiver e stranieri: le altre categorie più colpite
Tra le famiglie più vulnerabili ci sono poi quelle che svolgono anche funzione di caregiver: in 9 famiglie intervistate è presente una persona disabile che richiede assistenza. Oltre il 20% inoltre dichiara di aver perso il lavoro durante la pandemia e molte altre dichiarano di aver visto ridurre significativamente le ore di lavoro, con ripercussioni gravi sul reale reddito disponibile. Molti hanno poi visto venir meno il reddito da lavori precari: a chiamata, ambulanti, badanti.
Le famiglie straniere sono il 60% del campione e sono particolarmente esposte a questo fenomeno, anche se si sono stabilite in Italia da molti anni e sono inserite nella comunità dove vivono.
Cibo, bene secondario?
Emerge la difficoltà di far fronte al cumularsi di spese per i beni primari. Spesso il guadagno mensile è usato per pagare affitto e bollette, con la paura di perdere la casa. Il cibo diventa quasi un bene secondario e vengono esclusi gli alimenti più costosi come carne e pesce.
Il 50% del campione è stato assistito nel momento di massimo disagio da forme di sussidio statale: il 37% degli intervistati riceve il reddito di cittadinanza, il 19% la Naspi, il 7% è in cassa integrazione, il 4% un sussidio di disoccupazione, il 4% assegni o indennità di accompagnamento, l’11% invalidità civile ed il 30% ha confermato di ricevere altri tipi di sussidi (reddito di emergenza, bonus Covid).
“La povertà alimentare è un fenomeno che va ben oltre il solo bisogno materiale e riguarda aspetti sensibili della vita di ognuno; chi non ha accesso a un cibo adeguato vede compromesso il proprio benessere psicofisico: mancanza di dieta salutare, stress, paura, esclusione sociale. Il contrasto a questo fenomeno non può passare solamente attraverso misure di natura emergenziale come è stato per i buoni spesa erogati negli ultimi diciotto mesi. Servono politiche di contrasto più efficaci come, ad esempio, rafforzare gli interventi di sostegno al reddito in modo che garantiscano alle famiglie in difficoltà l’accesso a un cibo adeguato sotto il profilo socio-culturale e nutrizionale. Il cibo è un diritto umano fondamentale e le istituzioni a tutti i livelli hanno il dovere di garantirlo evitando che il numero di famiglie che vivono la povertà alimentare continui a crescere nei prossimi anni” spiega Roberto Sensi, Policy Advisor Global Inequality ActionAid Italia.
Gli enti di assistenza alimentare rappresentano quella rete di welfare territoriale imprescindibile per garantire livelli minimi di assistenza ai cittadini in difficoltà. Tuttavia, molte di queste realtà si sono trovate ad affrontare costi e difficoltà crescenti per far fronte all’aumento delle richieste di aiuto e per garantire adeguate condizioni di sicurezza ai propri volontari.
Le quattro realtà coinvolte in questo studio (La Speranza – Corsico, La Rotonda – Baranzate, Fondazione Progetto Arca/Bottega Solidale – Rozzano, Il Torpedone – Cinisello) sono state selezionate in base alla loro presenza sul territorio di Milano e aderiscono alla rete costituita dal Centro Servizi per il Volontariato – Città Metropolitana di Milano (CSV Milano) nell’ambito del progetto “Io non butto”. I diversi approcci nell’erogazione del servizio di assistenza alimentare (social market, emporio, food bank) sono accomunate dall’impegno di decine volontari che tengono attivi i centri e costituiscono la principale fonte di supporto anche emotivo e relazionale per le persone in difficoltà.
Dallo scoppio della pandemia noi di ActionAid ci siamo attivati a Corsico e a Napoli per la distribuzione dei beni alimentari e sostenendo il Coordinamento Aurora per l’emergenza Covid-19 a Torino. La sua azione oggi prosegue al fianco dell'Associazione La speranza di Corsico nell'aiuto a oltre 350 famiglie, circa 1.200 persone.