Saranno circa 260 milioni - 86 milioni delle quali in Africa Sub-Sahariana - le persone che nei prossimi anni, a causa dei cambiamenti climatici, saranno costrette a emigrare, nella maggioranza dei casi all’interno del loro stesso Paese.
A margine della Cop26 pubblichiamo il rapporto “Le migrazioni climatiche: rischi e sfide per le politiche di adattamento” sui rischi e le opportunità di questi flussi.
Mancanza di risorse e di sistemi di protezione sociale caratterizzano le migrazioni climatiche, che restano colpite da un vuoto di politiche a livello nazionale e internazionale.
Risposta limitata della comunità internazionale anche nella settimana di discussioni nell’ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCC) riunitasi a Glasgow in occasione della Cop26.
Resta un vuoto di politiche nazionali e internazionali, mentre il dibattito oscilla tra il considerare questi movimenti un’opportunità di adattamento ai fenomeni ambientali estremi o un impatto negativo di questi ultimi.
Eppure, le migrazioni climatiche sono già in atto: l’alterazione delle precipitazioni, l’aumento delle temperature e altri eventi ambientali estremi rendono le condizioni di vita delle popolazioni sempre più precarie, costringendole a spostarsi.
Un esempio i contadini e i lavoratori agricoli che dal Messico e dagli altri Paesi dell’America centrale migrano stagionalmente negli Stati Uniti, i pastori nella regione del Sahel che si spostano verso i sovraffollati centri urbani, i numerosi esodi rurali che interessano tutta l’Africa Sub-Sahariana, lo Sri Lanka, il Nepal, l’Afghanistan, il Pakistan e la Cina. Non solo, ma a preoccupare sono anche quelle comunità per cui spostarsi non è un'opzione, perché intrappolate all’interno di contesti degradati sotto il profilo socio-ambientale.
“Stiamo assistendo a un progressivo cambio di paradigma, che spinge per vedere la migrazione come un’opportunità di riposta adattiva e resiliente ai cambiamenti climatici. Tuttavia, questa visione rischia di promuovere un approccio che sposta il peso dell’adattamento sugli individui e sulla loro iniziativa anziché richiamare alla responsabilità gli Stati che maggiormente hanno contribuito all’attuale crisi climatica - attraverso risposte più incisive sul fronte della mitigazione e stanziamenti più cospicui per finanziare l’adattamento nei Paesi più colpiti. Una deresponsabilizzazione delle istituzioni che dietro alla narrativa “vincente” della mobilità nasconde il fallimento delle politiche contro i cambiamenti climatici” spiega Roberto Sensi, responsabile del nostro programma sulle diseguaglianze globali.
Vuoto politico
Il tentativo portato avanti dalle organizzazioni internazionali specializzate, prima fra tutte l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, di promuovere un approccio che vede la mobilità come una risposta agli impatti negativi dei cambiamenti climatici e non un problema causato da questi ultimi deve fare inoltre i conti con un contesto internazionale dove le migrazioni non sono sufficientemente governate o lo sono in chiave di repressione e restringimento delle opportunità di asilo.
Nonostante alcuni passi in avanti da parte della giurisprudenza nazionale e internazionale – come mostra una recente sentenza della Corte di Cassazione in merito alla domanda di protezione per ragioni ambientali da parte di un cittadino nigeriano - ad oggi ai migranti climatici non è riconosciuto né lo status di rifugiato né l’accesso a sistemi di protezione sussidiaria.
“È urgente che il nostro Paese e la comunità internazionale agiscano in modo più incisivo e tempestivo per garantire meccanismi di protezione adeguati per coloro che, a causa di eventi ambientali estremi, sono costretti o scelgono di abbandonare le loro comunità. Allo stesso tempo è importante investire nei processi di adattamento delle comunità più vulnerabili al fine di migliorare la loro risposta resiliente e far sì che la mobilità rappresenti una delle possibili risposte al cambiamento climatico e non una necessità” conclude Roberto Sensi.