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Giornalista
La storia è quella di Chiara (il nome è stato cambiato per motivi di sicurezza), ma richiama elementi comuni alle esperienze di migliaia di altre donne in Italia. Il compagno di Chiara aveva iniziato a diventare sempre più abusivo dopo la nascita del figlio, fino a quando non aveva deciso di lasciarla, per poi ritornare da lei poco dopo. Quando Chiara aveva rifiutato di rimettersi insieme, le violenze erano diventate impossibili. “Da lì la situazione è degenerata ulteriormente, sfociando anche in aggressioni fisiche,” racconta Chiara ad ActionAid, spiegando che gli abusi fisici erano l’ennesima dimostrazione del controllo che l’uomo pretendeva di esercitare sulla sua vita da anni. “Ero sfiancata, stanca, esasperata, molto spaventata,” continua Chiara. “E francamente lui si beava anche tanto di questo terrore.”
È stato allora che Chiara ha deciso di rivolgersi alle forze dell’ordine. “Il che non ha dato assolutamente nessun esito all'inizio,” spiega. Chiara ha dovuto sporgere diverse denunce prima di essere ascoltata e di ottenere l’avvio di un procedimento penale. Un’esperienza vissuta da molte donne che subiscono violenza nel nostro Paese. Nel 2017 la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la sottovalutazione del rischio e i ritardi nell’apertura delle indagini dopo la denuncia della violenza nel caso Talpis, in cui lo stato non aveva agito tempestivamente per proteggere una donna e i suoi figli dal marito violento. L’uomo aveva poi ucciso un figlio e cercato di assassinare anche la moglie.
“Quando ti rivolgi alle forze dell'ordine, c'è ancora questa resistenza per cui è una cosa che riguarda la coppia, è una cosa che non deve essere gestita dall'autorità giudiziaria,” continua Chiara, “ci sono voluti tanti, tanti anni, tanta forza e sicuramente ha fatto la differenza l’incontro con i centri antiviolenza.”
È nel centro antiviolenza infatti che Chiara è riuscita a trovare sostegno e competenze. “Per la prima volta [il centro antiviolenza] mi ha fatto sentire nel posto giusto,” racconta.
Insieme alle case rifugio, i centri antiviolenza rappresentano dei porti sicuri dove è possibile avere accesso a informazioni e sostegno, anche quando, come nel caso di Chiara, le autorità non offrono garanzie.
Mentre le case rifugio, ad indirizzo segreto, ospitano le donne e i figli minori nell’emergenza, i centri offrono consulenza legale, psicologica e un’ampia serie di servizi vitali. “Il problema di chi subisce violenza è che pensa comunque di essersela meritata e prova vergogna ed è molto difficile quindi aprirsi, denunciare o cercare una soluzione,” continua Chiara. “Quando tu invece ti confronti con le esperte, capisci che non riguarda solo te.”
Da decenni centri antiviolenza e case rifugio sono un ingranaggio fondamentale del contrasto alla violenza di genere nel nostro Paese. Per molto tempo sono state le uniche realtà ad offrire sostegno alle donne e, come ha sottolineato anche l’ultimo rapporto di ActionAid “Cronache di un’occasione mancata”, la nascita di questi luoghi ha persino anticipato l’azione governativa italiana di un paio di decenni. È infatti solo a partire dal 2013 con l’introduzione dell’art. 5-bis del DL 93/2013 che centri e case rifugio hanno ottenuto un riconoscimento istituzionale e uno stanziamento nazionale di fondi strutturale. Eppure, ancora oggi, queste realtà faticano ad ottenere un sostegno istituzionale adeguato. Non solo i fondi pubblici non sono abbastanza, ma le tempistiche di erogazione mettono a serio repentaglio il funzionamento e persino l’esistenza di queste realtà.
“Anche lo studio di quest’anno, ancora una volta, ha evidenziato il grave ritardo con cui i fondi destinati alle strutture antiviolenza e alle stesse donne giungono a destinazione. Non solo i fondi ordinari, anche questi straordinari stanziati in piena emergenza sanitaria,” spiega Isabella Orfano, esperta del Programma Diritti delle Donne di ActionAid Italia. L’ultimo rapporto di ActionAid sul monitoraggio del sistema antiviolenza evidenzia infatti come le tempistiche di erogazione delle risorse siano ritornate ad allungarsi rispetto allo scorso anno, quando l’emergenza dettata dalla pandemia, aveva accorciato i tempi.
Il Dipartimento Pari Opportunità ha impiegato circa 7 mesi per trasferire le risorse relative all’annualità 2020 alle Regioni che, a loro volta, ad ottobre 2021 risultavano aver erogato solo il 2% dei fondi a centri antiviolenza, case rifugio ed enti gestori di interventi di prevenzione e protezione. Nello specifico, solo le Regioni Liguria e Umbria avevano trasferito un acconto alle strutture al 15 ottobre 2021.
“I ritardi hanno un effetto estremamente concreto per chi gestisce un centro,” continua Orfano, “significa mettere in difficoltà le operatrici, che magari non prendono uno stipendio per mesi e mesi. Soprattutto significa mettere a rischio la possibilità di continuare a fornire il supporto alle donne che subiscono violenza, minando il loro diritto di vivere una vita senza violenza.”
Laura Gaspari, responsabile dell’area violenza di genere di On the Road, una cooperativa che gestisce diversi centri antiviolenza nelle Marche, conferma che le conseguenze di questi ritardi nell’accesso ai finanziamenti pubblici segnano profondamente la vita professionale e privata di chi si trova costantemente in prima fila a combattere la violenza di genere con il proprio lavoro. “Il vissuto delle operatrici è immerso nell’insicurezza,” spiega Gaspari. “Lavoriamo sull’empowerment femminile, sul percorso di uscita, e noi siamo le prime ad avere una situazione incerta e indefinita. Anche chi ha un contratto a tempo indeterminato, respira lo stesso questo senso di limbo”.
I finanziamenti esigui e la difficoltà di accesso ad essi, con tempi estremamente lunghi perché arrivino a destinazione, ostacolano spesso anche la gestione del lavoro quotidiano, risultando anche nella mancanza di una remunerazione adeguata delle professioniste, solitamente donne, che lavorano per i centri e le case rifugio. “Il lavoro non viene riconosciuto né valorizzato,” continua Gaspari. “Se non si fa leva sul volontariato, il lavoro viene fatto solo a metà.”
Le tempistiche di emanazione del decreto di ripartizione dei fondi contribuiscono al ritardo nella liquidazione delle risorse. Nonostante infatti le risorse siano regolarmente allocate a inizio anno, il decreto viene emanato mesi e mesi dopo, solitamente intorno al 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Un atto che vorrebbe forse simboleggiare l’impegno dello stato nella lotta alla violenza, ma che finisce per penalizzare pesantemente i centri antiviolenza e le case rifugio. “Noi non sappiamo nemmeno se gli eventi che faremo a novembre saranno coperti dai costi o no,” spiega Gaspari. “Ci sembra assurdo che nonostante il ruolo imprescindibile che ricoprono centri antiviolenza e le case rifugio nel sistema antiviolenza, continui a mancare riconoscimento a livello amministrativo e formale.”
Dal rapporto pubblicato da ActionAid risulta che le tempistiche di accesso ai fondi fossero diminuite l’anno scorso, quando le risorse del 2019, distribuite nel 2020, avevano impiegato 10 mesi a raggiungere le casse dei centri antiviolenza. Tempi lunghi ma molto inferiori rispetto, ad esempio, alle annualità del 2017 che avevano impiegato in media più di 15 mesi ad arrivare a destinazione. In particolare, l’anno scorso, il Dipartimento Pari Opportunità era riuscito a trasferire i fondi alle regioni, responsabili a loro volta di liquidarli alle strutture antiviolenza, in quattro mesi, dimezzando del 50% la tempistica registrata l’anno precedente. Dietro questa accelerazione vi era stato il lavoro di advocacy delle organizzazioni per i diritti delle donne e la spinta politica della Ministra Bonetti. “La pandemia ha dimostrato che se c’è la volontà politica, c’è anche la possibilità di ridurre i tempi imposti dalla burocrazia,” continua Orfano.
Esaurita la prima ondata di emergenza, però, il senso di urgenza nei palazzi del governo e della pubblica amministrazione è andato spegnendosi e i tempi per l’accesso ai fondi sono tornati ad allungarsi. Ad ottobre 2021, il Piano antiviolenza per il triennio 2021- 2023 non era ancora stato reso pubblico. E’ stato reso disponibile solo di recente, il 17 novembre.
“È come se dalle istituzioni non venisse percepita la necessità dei centri antiviolenza,” dice Gaspari, “Veniamo sempre alla fine di tutto.”
La precarietà delle risorse si riversa anche sull’impossibilità di ampliare il sistema di sostegno alle donne che hanno subito violenza. Nel nostro Paese, infatti, non tutti i centri antiviolenza specializzati hanno delle case rifugio. Per legge non sono tenuti ad averle, ma è importante avere un sistema di strutture messe in rete. Secondo la Convenzione di Istanbul, il primo trattato internazionale che ha creato un quadro giuridico per proteggere le donne dalla violenza, il parametro per garantire un numero adeguato di alloggi in case rifugio sarebbe di un posto letto ogni 10.000 abitanti. Un rapporto del 2018 redatto dalla rete europea dei centri antiviolenza Wave, l’Italia dovrebbe avere 6.078 posti letto e ne mancano ben 5.451.
Aprire una casa rifugio richiede un investimento di risorse importante, comporta, tra le altre cose, un affitto, bollette, costi di pulizia, oltre che di vitto e alloggio per le donne e la presenza di operatrici.
“La difficoltà della gestione di una casa rifugio è mantenerla,” dice Orfano. “Soprattutto, se i fondi continuo a giungere regolarmente a destinazione con un ritardo di molti mesi, è difficile che gli enti si assumano questo rischio.”
A risentire della precarietà delle risorse è anche tutta la progettazione per la prevenzione della violenza. Il Dipartimento per le pari opportunità ha destinato solo il 14% dei fondi a interventi di prevenzione.
“Questo è un tasto dolente,” afferma Orfano. “Le risorse sono spese prevalentemente per rispondere a casi di violenza già avvenuta ma lo stato non sta lavorando per prevenire la violenza in maniera strutturata, su più fronti e con risorse adeguate.”
La mancanza di fondi destinati alla prevenzione è anche lo specchio di una miopia nell’approccio alla violenza di genere. “Prevenzione significa anche concepire le leggi, le riforme, i bilanci e la programmazione con misure che riguardino i diritti delle donne,” continua Orfano. “Manca ancora la strutturalità, ovvero inserire le politiche di genere all’interno di tutte le altre politiche.”
Per le donne che subiscono violenza, la mancanza di politiche strutturali si traduce in un senso di solitudine molto concreto. “È difficile non sentirsi sole in queste circostanze,” spiega Chiara. “Mi sono sentita sola anche quando non lo ero, nel senso, io il sostegno delle persone che mi vogliono bene l'ho sempre avuto, eppure mi vedevo sola, mi sentivo sola, mi percepivo sola.” Proprio per questo la presenza dei centri antiviolenza risulta così importante. “Incontrare in questo percorso il centro antiviolenza ha significato tantissimo per me, ha fatto la differenza. Io mi sono sentita accolta e accompagnata nel mio percorso, che è stato lunghissimo e che ancora non è finito.”
Non è mai troppo tardi per chiedere aiuto. Puoi rivolgerti in qualunque momento al Centro Antiviolenza più vicino a te, oppure contattare il numero di emergenza nazionale 1522 il cui servizio è sempre attivo.
Per saperne di più: “Cronache di un’occasione mancata”
È una giornalista freelance specializzata in long-form e inchieste internazionali. I suoi articoli sono apparsi, tra gli altri, su New Yorker, Guardian, Slate, Al Jazeera e la sua inchiesta narrativa sull’impunità dei trafficanti di esseri umani in Italia è stata finalista allo European Press Prize 2021. È stata Investigative Fellow alla Columbia Journalism School e il suo lavoro è stato sostenuto da alcuni dei principali grant di giornalismo tra cui lo European Journalism Centre, il Brown Institute for Media Innovation e l’International Women’s Media Foundation. In passato, ha lavorato per CNN, US Press Freedom Tracker e, in Italia, per Vita. Ha conseguito un Master in giornalismo politico e affari internazionali alla Columbia Journalism School, dove è stata San Paolo scholar.