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di Ottavia Spaggiari – Giornalista


Cosa congela i percorsi di libertà delle donne che hanno subito violenza

Riuscire ad affrancarsi da un partner violento è anche una questione economica. Ogni anno nel nostro Paese, 50mila donne si rivolgono ai centri antiviolenza ma, a causa di politiche frammentarie e finanziamenti pubblici inadeguati, molte di queste finiscono per pagare un prezzo invisibile e altissimo, di cui si parla ancora troppo poco.

“Una donna che esce da un contesto di violenza deve riscostruire interamente la propria vita,” spiega Laura Gaspari, referente della cooperativa On the Road che, nelle Marche, gestisce diversi centri antiviolenza.

Dire no agli abusi può significare essere costrette ad allontanarsi dalla casa familiare. Per motivi di sicurezza, a volte, ci si deve addirittura trasferire in una città diversa e sospendere, almeno temporaneamente, il proprio lavoro. Una serie di cambiamenti costosissimi che spesso ci si ritrova ad affrontare da sole e senza risorse finanziarie, o perché queste rimangono sotto il controllo del maltrattante, oppure, perché una serie di mancanze sistemiche ed ostacoli burocratici non permettono l’accesso ad aiuti pubblici.

Ad esempio, produrre una dichiarazione Isee separata da quella del partner abusivo può essere un problema per molte donne che rimangono così escluse da una serie di servizi fondamentali per raggiungere la propria indipendenza economica e l’affrancamento dalla violenza stessa. “Tutto il nostro sistema di welfare è fondato sull’Isee,” spiega Rossella Silvestre, programme officer della Gender and Economic Justice Unit di ActionAid. “Ma senza poter produrre una dichiarazione indipendente, se la donna vuole accedere al reddito di cittadinanza e il maltrattante ne è già beneficiario, la donna non può farlo. E non può farlo nemmeno se il reddito del partner è alto.” Lo stesso vale per tutti gli altri servizi di sostegno, inclusi quelli per la cura dei figli o delle figlie.

“Per quanto si faccia un lavoro di emersione e di verbalizzazione, a livello di sostegno concreto e di riconoscimento c’è molto poco,” spiega Gaspari. “Le donne si trovano costrette ad accontentarsi.”

Pensare che la libertà dalle violenze e la messa in sicurezza rappresentino un risarcimento valido per la rinuncia a tutti i tasselli che costituiscono una vita, la casa, il lavoro e le risorse economiche, significa non comprendere la realtà di chi cerca di affrancarsi da un partner violento: la mancanza di risorse finanziarie taglia le gambe alle donne, tanto più se queste hanno figli piccoli. Spesso le intrappola in situazioni che sembrano non avere una via d’uscita.

Senza un posto in cui abitare, un reddito e un sistema di servizi su cui poter contare, persino le donne che sono riuscite ad abbandonare una relazione abusiva, in molti casi, si trovano costrette a tornare indietro. La mancanza sistemica di risorse trasforma il maltrattante nell’unica alternativa possibile.

Il tema casa: le donne costrette ad andarsene

Secondo l’ultimo rapporto di ActionAid Diritti in bilico. Reddito, casa e lavoro per l’indipendenza delle donne in fuoriuscita dalla violenza, le donne vittime di violenza hanno una probabilità quattro volte superiore rispetto alle altre di vivere in situazioni di disagio abitativo. Nei territori già segnati da altre forme di marginalizzazione, come i territori che sono stati colpiti da terremoti, queste difficoltà diventano ancora più acute.

Nonostante il nostro sistema penale infatti preveda delle misure per l’allontanamento dalla casa familiare del partner abusivo e il divieto di avvicinamento, in molti casi sono le donne a doversene andare, o perché la casa è di proprietà del maltrattante, oppure per motivi di sicurezza. A volte, soprattutto nei piccoli centri e in alcuni contesti abitativi, allontanare il maltrattante e assicurare il mantenimento di una distanza fisica è difficile. “Magari l’uomo torna nella casa dei genitori, che vivono nello stesso palazzo, dove la sicurezza non può essere garantita,” spiega Gaspari.

Spesso però, anche dove fosse possibile, le misure a disposizione non vengono applicate. Secondo un rapporto del Ministero dell’Interno, i provvedimenti di allontanamento sono scesi da 332 nel 2020 a 320 nel 2021. Numeri esigui se si pensa che, dai dati Istat, risulta che nel 2020 sono state oltre 30mila le donne che hanno avviato un percorso con i Centri antiviolenza che aderiscono all’Intesa Stato Regioni.

Sono cifre che riflettono la difficoltà da parte delle autorità di riconoscere la violenza di genere ed intervenire per fermarla. Un fenomeno rilevato anche dalla relazione della Commissione di Inchiesta sui Femminicidi, sulla Risposta Giudiziaria ai Femminicidi in Italia. L’analisi condotta dalla Commissione, che ha preso in esame i fascicoli relativi a 15 procedimenti per femminicidio, rivela la mancanza sistemica di protezione della persona offesa. In alcuni di questi casi, le donne avevano denunciato – fino a otto volte – il maltrattante ma solo in pochissimi le forze dell’ordine avevano assunto misure pre-cautelari come l’arresto, il fermo o l’allontanamento dalla casa familiare.

Troppo spesso sono le donne a dover abbandonare la propria abitazione, per mettersi al sicuro. “È il risultato del fallimento del sistema,” afferma Gaspari. “È la donna che deve scontare il prezzo della violenza.”

Mentre le case rifugio rappresentano una soluzione, anche abitativa, fondamentale ma temporanea, ancora oggi nel nostro Paese non vi è nessuna norma che garantisca un alloggio sicuro e sostenibile nel medio e lungo periodo. “Non tutti i comuni e le regioni garantiscono contributi alle donne per pagare l’affitto e non vi sono canali preferenziali per alloggi popolari,” spiega Gaspari. Il compito costoso e complesso di trovare una soluzione abitativa ricade così, spesso a titolo gratuito, sulle già oberate strutture antiviolenza. Le donne, soprattutto quelle che non hanno una rete di supporto, rischiano di rimanere in casa rifugio per moltissimo tempo.  

Finanziamenti pubblici per contrastare l’isolamento della violenza

Dopo aver lasciato il partner violento, spesso chi può torna a vivere con i propri genitori e la famiglia di origine ma questo per molte non è un’opzione.

“La violenza prima di tutto isola,” spiega Gaspari. “Le donne che subiscono violenza in molti casi vengono private di una rete sociale.” La solitudine, in un Paese in cui i rapporti famigliari si sostituiscono spesso al welfare, si trasforma nella privazione di risorse fondamentali per raggiungere l’indipendenza. Può significare non avere nessuno che tenga i figli durante il lavoro, la mancanza di un sostegno economico e di un aiuto nella ricerca di una nuova casa.

Il controllo esercitato dal maltrattante però non l’unico responsabile dell’isolamento. A volte è proprio la decisione della donna di spezzare il ciclo della violenza a trasformare le relazioni. “Quando le donne iniziano a denunciare, a separarsi, questo rompe degli equilibri profondamente radicati,” dice Gaspari. Spesso all’interno delle reti sociali più strette, gli abusi non sono riconosciuti come tali. “Magari le donne si sentono dire da parenti e amici che non vogliono intromettersi nella relazione di coppia. Non si sentono ascoltate e sostenute e questo è molto grave.” Per questo, può accadere che chi ha subito degli abusi cerchi di mediare. “Ritirano la denuncia, o raccontano solo alcune cose perché ci sono figli da tutelare,” continua Gaspari. “Non è scontato che trovino supporto, né emotivo, né pratico nella propria cerchia.”

Per questo che il sostegno pubblico è determinante.

“Molto spesso i media si limitano a trattare i casi di femminicidio o si concentrano sulla fase iniziale di ingresso in una struttura, dimenticando che il percorso di fuoriuscita dalla violenza è molto lungo,” spiega Isabella Orfano, esperta diritti delle donne di ActionAid. “La mancanza di sostegni socioeconomici spesso non permette alle donne di raggiungere la piena indipendenza e la libertà di essere libere dalla violenza. C’è bisogno di politiche integrate. La rappresentazione della donna vittima deve lasciare il posto alla donna portatrice di diritti.”

ActionAid ha lanciato una petizione per chiedere alle istituzioni italiane nazionali, regionali e locali di garantire un supporto economico, adottare delle politiche strutturali per il re/inserimento lavorativo e il mantenimento lavorativo e trovare soluzioni abitative sul medio e lungo periodo.

Nonostante, infatti, sia il governo che alcune regioni, tra cui Sardegna e Lazio, si siano dotate di alcuni strumenti per sostenere le donne che spezzano il ciclo della violenza, queste misure non sono abbastanza.

Nel 2018 la Sardegna è stata la prima Regione ad adottare una misura di sostegno al reddito prevedendo un sussidio mensile di 780 euro per un massimo 3 anni. Nello stesso anno, il Lazio ha istituito il “Contributo di libertà”, destinando alle beneficiarie massimo 5.000 euro una tantum.

Tra il 2018 e il 2022 sono 108 le donne ad aver presentato domanda in Sardegna, ma solo 59 di queste ne hanno beneficiato. Inoltre, in alcuni casi, bisogna essere in grado di anticipare il denaro, che viene poi rimborsato, ma solo se il contributo è utilizzato per spese già preventivate di cui bisogna presentare i giustificativi.

Più accessibile, almeno sulla carta, il Contributo di Libertà in Lazio che non richiede il coinvolgimento dei servizi sociali né la presentazione dell’Isee. Il sistema di erogazione però ha rappresentato un ulteriore onere per case rifugio e centri antiviolenza che hanno il compito di rendicontare le spese effettuate dalle beneficiarie. Inoltre, anche in questo caso, solo poche donne hanno tratto beneficio dalla misura. In Lazio, nel 2019, il Contributo di libertà finanziato con 750 mila euro ha sostenuto 153 donne. A luglio 2022, la misura è stata rifinanziata con uno stanziamento di 655 mila euro.

Nel 2020 il Parlamento italiano ha istituito il “Reddito di libertà nazionale,” allocando per il periodo 2020-2022 una quota complessiva di 12 milioni di euro al sostegno di circa 2.500 donne in fuoriuscita da contesti di violenza. Anche in questo caso si tratta di risorse insufficienti. Solo nel 2020, l’Inps ha registrato 3.283 richieste di contributo ma, secondo l’Istat, sarebbero circa 21mila all’anno le donne inserite in percorsi di fuoriuscita dalla violenza che potrebbero beneficiare di misure di supporto al reddito. “È l’ennesima misura a livello economico insoddisfacente,” afferma Gaspari, che sottolinea anche come l’assenza di requisiti specifici per l’idoneità di accesso abbiano lasciato ai diversi territori una certa arbitrarietà nell’erogazione. “Un’assistente sociale, ad esempio, non voleva approvare la domanda del reddito di libertà perché la donna si trovava in casa rifugio, sostenendo che quindi, anche se indirettamente, percepiva già un contributo pubblico,” continua Gaspari. Una contraddizione in termini, poiché questo strumento dovrebbe proprio sostenere le donne nel raggiungere un’autonomia, anche abitativa. “C’è il giudizio e il pregiudizio che le donne non devono mai ricevere troppo.”

Quando la violenza impoverisce le donne

L’emancipazione risulta ancora più complessa per chi viveva già in una condizione di precarietà prima di subire violenza o per chi è sottoposta a violenza economica, intesa come una serie di condotte esercitate dal maltrattante per controllare, danneggiare e assoggettare ulteriormente la donna. Tra queste vi può essere il controllo esclusivo sull’economia familiare, la decisione unilaterale degli acquisti da fare, la privazione della libertà della donna di gestire il proprio stipendio e di accedere al conto corrente fino all’imposizione di un divieto di lavorare e di studiare.

Secondo l’Istat, il 37,8% delle donne che hanno intrapreso un percorso di fuoriuscita dalla violenza nel 2020 aveva dichiarato di aver subito violenza economica. Ma in realtà, nello stesso anno, le donne assistite dai centri antiviolenza non finanziariamente autonome erano molte di più: il 60,5%. Secondo Gaspari questo è dovuto a due fattori principali, il riconoscimento della violenza economica come tale e il fatto che, indipendentemente dalla modalità in cui si traduce un rapporto abusivo, la violenza spesso finisca per impoverire la donna.

“La violenza economica è profondamente radicata ma è riconosciuta pochissimo anche dalle donne stesse, perché assume tanti aspetti della gestione familiare,” spiega Gaspari. “Per quelle donne che hanno delle risorse proprie e che non subiscono violenza economica, la violenza si può scatenare anche in termini economici quando una relazione finisce, ma quei meccanismi non vengono necessariamente riconosciuti. Si può trattare del diniego del mantenimento ad esempio, oppure, nelle donne che sono costrette ad accollarsi i debiti del partner.”

A volte, la relazione abusiva spinge le donne a lasciare il proprio lavoro o a sospendere la propria attività perché la pressione diventa insostenibile. “Riconoscere la tipologia di violenza dipende da come la leggiamo,” spiega Gaspari. “Le lenti che abbiamo sono fondamentali.”

Scarica il Report Diritti in Bilico

Illustrazioni di Gianluca Costantini

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