Violenza sulle donne: liberarcene è una questione che ti riguarda
La violenza di genere ha sempre bisogno, soprattutto nella narrazione comune, di essere associata al singolo, inquadrato nella migliore delle ipotesi come “orco” o “mostro”. Nel caso del gruppo, altresì, il riferimento semantico rimanda alla bestialità del branco. Figure mitologiche, quelle che operano la violenza di genere, archetipi di un mondo in cui la violenza è un’incidentale che ci tocca soltanto di striscio, ma non corre il rischio di attraversarci, e soprattutto di turbarci.
Minotauri contemporanei, metà uomini, fosse altro per il volto sorridente delle prime pagine dei giornali, magari ritratti proprio accanto alle loro vittime, metà creature informi, feroci e impalpabili. Perché la violenza di genere, per esistere nel mondo, ha bisogno di individuare un colpevole ben preciso, che di umano abbia solo le sembianze, da cui prendere con una certa agilità le distanze, ed evitare così ogni forma di rispecchiamento, senza mai correre il rischio di sentirci chiamati anche noi, a quell’appello.
Quando la violenza, invece, interroga il sistema, questo meccanismo, che nel rassicurante mantra del “questi non sono uomini” trova la sua massima espressione, quell’attraversamento avviene, e interpella ciascuno di noi riportandoci alla più banale delle domande: noi dov’eravamo? Dov’eravamo lì dove tutto ha avuto inizio fino a consumarsi nella violenza più annientante? Dov’eravamo di fronte al grido di aiuto di donne che si sono rivolte alle Istituzioni e che non sono state supportate adeguatamente? Dov’eravamo lì dove si consumavano tutte quelle piccole e grandi violenze a cui non abbiamo fatto nemmeno caso? Dov’eravamo mentre migliaia di donne continuavano a non esistere, e a sparire di fronte agli occhi di quel mondo indifferente?
Le forme di espressione della violenza sono molteplici e profondamente trasversali. A noi, infatti, giungono quelle più estreme ed evidenti, il più delle volte senza via di ritorno. Eppure la violenza di genere è infestante, pervade tutti gli ambiti della vita, e il più delle volte facciamo fatica a ricondurre a una matrice patriarcale profondamente radicata nella nostra cultura le sue origini più profonde.
I rapporti di potere si fondano su una salda asimmetria, che diventano strumento di assoggettamento e coercizione. Lo diventano attraverso i quotidiani abusi, le microaggressioni che vengono costantemente minimizzate, la disparità salariale sui luoghi di lavori, il peso del carico di cura riversato unicamente sulle donne, senza una reale possibilità di emancipazione. Lo diventa finanche il linguaggio, specchio di un privilegio maschile, che rifiuta la declinazione di talune professioni, perché si sa, “non sono quelle le questioni importanti”. Eppure attraverso il linguaggio nasciamo nel mondo e nello stesso ci definiamo a partire da sembianti rappresentazionali che di noi dicono. E delle nostre capacità, e soprattutto nella potenza di poterci inscrivere in un futuro che finalmente possa diventare anche per noi donne una possibilità concreta.
La questione della violenza mostra configurazioni che intrecciano più assi dei meccanismi di subordinazione, intersecando alle discriminazioni basate sul genere anche quelle che riguardano la classe, l’etnia e tutte quelle forme di oppressione e marginalizzazione che agiscono sul fenomeno della violenza, inquadrandolo dunque come la punta di un iceberg che assume nel suo nucleo una molteplicità fattoriale di cui non possiamo tenere conto.
Ed è proprio alla luce di questa complessità, in cui si intessono le trame della violenza di genere, che un ruolo centrale dovrebbe essere assunto proprio dalla politica e dalle Istituzioni, che alla luce dell’analisi di quel profondo disequilibrio di potere, dovrebbero farsi garanti, attraverso le loro azioni e misure, dei diritti fondamentali e di quella parità che ad oggi, purtroppo, sembra ancora così lontana. Le misure giuridiche adottate in questi anni per il contrasto al femminicidio e alla violenza di genere sono stati numerose, ma possiamo dire che siano state anche efficaci?
A 6 anni dalla legge 119 del 2013, da molti conosciuta come “legge sul femminicidio”, nel 2019 è stato introdotto nell’ordinamento italiano una nuova norma, la n. 69 recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”, più comunemente conosciuto come “Codice Rosso”, pensato per velocizzare l’iter giudiziario per reati legati alla violenza di genere e introdurre nuove specifiche.
Infatti, la denominazione di codice rosso, mutuando quella del triage ospedaliero previsto nei casi di urgenza, indica una vera e proprio corsia preferenziale e veloce per le denunce e i casi di violenza contro donne e minori.
Nel 2023, inoltre, è stato varato un nuovo disegno di legge che mira soprattutto a snellire i processi, agire misure di maggiore controllo nei confronti di chi ha già commesso reati, nonché inasprire le pene.
Tuttavia, l’imponenza delle misure securitarie messe in campo in questi anni non ha, nei fatti, contribuito a diminuire il numero dei femminicidi e porre un argine reale al problema della violenza di genere. Basti considerare che, di pari passo a queste azioni stiamo assistendo, in apparente contraddizione, al depotenziamento dei centri antiviolenza, che se da un lato vengono indicati come presidi necessari, dall’altro non vengono finanziati in maniera tale da rispondere adeguatamente alle richieste che sopraggiungono.
Tutto questo ricade a cascata sui percorsi di fuoriuscita dalla violenza, che devono prevedere anzitutto, in maniera concreta e reale, la possibilità di sviluppare un’autonomia economica, che è una delle prime libertà che vengono sottratte, con il solo scopo di aumentare il divario di potere posto in essere e mantenere le donne in una condizione di dipendenza. Per questo il “reddito di libertà”, rappresenta uno strumento concreto per implementare i percorsi di emancipazione, da affiancare a progetti di formazione e conseguente inserimento lavorativo.
Il Reddito di libertà è stato istituito nel maggio 2020 con il Dl Rilancio: parliamo di 400 euro al mese per un massimo di 12 mesi ed è stato finanziato con 12 milioni di euro per il periodo 2020-2022. Secondo i dati offerti dall’Inps, durante il primo anno ne hanno beneficiato solo 600 donne a fronte delle 3.283 richieste presentate.