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15 Luglio 2022
Il Nepal è un piccolo Stato che confina con due delle più grandi potenze asiatiche, Cina e India, e ospita le vette più alte del mondo: ambienti inadatti alla vita umana, dove alcuni credono che dimorino gli dei. E altri lo Yeti.
Il nome della capitale, Kathmandu, evoca un luogo lontano ed esotico. Ed è proprio a Kathmandu che risiede, in un antico palazzo di mattoni con finestre in legno intagliato, la Kumari (letteralmente vergine), ovvero la “Dea bambina”, individuata tra tante piccole di etnia newari con specifiche caratteristiche. Il suo status di Dea cesserà con l’arrivo del menarca quando verrà cercata la nuova Kumari.
Il Nepal è la terra natale del Buddha e non a caso nella capitale del Paese si trova uno degli Stupa più grandi del mondo: Il Boudhanath.
Nonostante questo, la religione più diffusa resta comunque l’induismo, professato da 8 persone su 10.
Tristemente significativi sono i dati relativi allo stato economico della maggior parte dei cittadini nepalesi: circa una persona ogni cinque vive sotto la soglia della povertà, ovvero, ha un reddito medio inferiore a 1 euro al giorno. Ad oggi sono oltre 30 milioni i nepalesi che vivono in povertà.
Ed è proprio la povertà, insieme alla persistente disuguaglianza di genere, alla bassa alfabetizzazione e agli alti tassi di disoccupazione, la causa di un forte incremento di violenza di genere.
Una donna su due ha subito una qualche forma di sopruso durante il corso della propria vita. Secondo i rapporti della polizia, annualmente nel Paese si registrano tra i 2.000 e i 4.000 crimini contro donne e bambini (tra cui omicidio, traffico di esseri umani, stupro, rapimento, attacchi con l'acido).
In questo contesto ActionAid lavora dal 1982, sostenendo migliaia di persone ogni giorno.
È il 13 maggio quando insieme a Marzia, una tra le nostre sostenitrici più affezionate, partiamo alla volta del Nepal. Qualche giorno dopo, accompagnate da Nisha e Aruna, referenti per ActionAid Nepal, ci rechiamo a Lalitpur, presso l’ufficio dell’organizzazione locale con la quale ActionAid collabora da un paio di anni. Noi di ActionAid, infatti, lavoriamo così: senza il tramite degli espatriati, ma in stretta sinergia con i partner locali che, essendo ben radicati nella realtà locale, ci permettono di comprenderla meglio e, di conseguenza, di avviare progetti realmente utili e voluti dalle persone.
È un afoso martedì mattina quando le incontriamo.
Il passaggio dall’abbagliante luce del mattino al buio dell’ufficio richiede ai nostri occhi qualche momento di adattamento per scorgerle meglio. Su un divanetto in rattan ci attendono sette giovani donne tra i 23 e i 39 anni. Ci scambiamo sguardi, sorrisi e saluti a mani giunte. Presto iniziamo a conoscerle meglio. Solo due di loro parlano un po’ di inglese e le colleghe di Kathmandu ci fanno da interpreti. Le ragazze, una ad una, iniziano a dispiegare il racconto del lembo più drammatico della loro vita.
Storie di sofferenza, paura, emarginazione e ingiustizie. E di vile violenza. Tutte sono state aggredite con acido o con sostanze ustionanti: alcune di loro hanno mani o petto ustionati. Una di loro - vestita con un decoroso abito tradizionale e acconciata con una lunga treccia morbidamente appoggiata sulla spalla destra - si chiama Sita e ha l’intero volto sfigurato.
L’ustione ha cancellato dal suo viso ogni espressione e anche la sua vera età.
La storia di Sita è tra le più tragiche, ma lei non perde nemmeno per un istante calma e dignità, raccontandoci che a 23 anni si trasferì a Kathmandu per lavorare in una fabbrica di tappeti dove conobbe un collega che iniziò a corteggiarla. Presto il corteggiamento degenerò in vera e propria persecuzione. Al rifiuto di lei, l’uomo la rapì e la rinchiuse in una stanza per mesi. In quella stanzetta buia abusò di lei verbalmente e fisicamente e quando lei un giorno tentò la fuga, la aggredì dandole fuoco e bruciandole l’intero volto, il petto e le braccia. Le sue urla richiamarono la folla e Sita venne ricoverata in un ospedale di Kathmandu dove conobbe le attività di ActionAid, insieme ad altre donne con il suo stesso destino.
Sita negli anni ha ricevuto adeguati trattamenti alle ustioni, supporto psicologico e, oggi, ha un lavoro stabile e sicuro nella capitale, presso un’organizzazione che si occupa di animali maltrattati.
Dopo di lei Indira ci racconta con la voce ancora ruvida di risentimento, che il suo ex marito frequentava altre donne e non le permetteva di lamentarsi, fino ad arrivare a cacciarla di casa quando lei decise di far sentire le sue ragioni con più determinazione. Quel che è peggio, è che il marito – come consuetudine in Nepal – tenne con sé entrambi i loro bambini.
Lontana dai figli e con un lavoro precario, umiliata e abbandonata a sé stessa, durante la pandemia Indira si trovò senza alcuna opportunità di guadagno per mantenersi e cadde in una tremenda depressione che la condusse, in un raptus suicida, a cospargersi di benzina e a darsi fuoco nella sua cucina.
L’istinto di sopravvivenza, però, ebbe la meglio: Indira riuscì quasi miracolosamente a spegnere le fiamme sul suo corpo, ma oggi sopravvive grazie alle cure costanti per le infezioni croniche cui è soggetta e al supporto psicologico che sta ricevendo.
Il macigno che comprime il nostro stomaco durante questo incontro non si muove di un millimetro, mentre queste straordinarie donne ci aprono il loro cuore. Il senso di ingiustizia, tristezza e una rabbia feroce ci bruciano dentro, gli occhi sono costantemente umidi.
Julie, una giovane ragazza dalla pelle di pesca e lunghi capelli neri lucidissimi, indossa una giacca fucsia e i segni di un’ustione diffusa che le corre dal petto fino al labbro inferiore. Julie, senza mai perdere la sua aria decisa, ci racconta che quando disse al suo ex fidanzato di voler chiudere la relazione, lui rispose minacciandola: “Se mi lasci ti porto via la tua bellezza”, al che lei, con quella spavalderia e l’orgoglio che ancora conserva, rispose: “Sono libera di fare come voglio e non voglio più stare con te”.
Ognuna di queste sette giovani donne ci ha affidato la propria storia con grande generosità e fiducia. In Marzia e in me la riconoscenza per tale gesto è enorme, come l’orgoglio di far parte di qualcosa di più grande di noi: un’organizzazione che, in rete con altre, combatte contro le peggiori ingiustizie nel mondo.
Nello specifico, qui in Nepal, tra le altre attività, agiamo attraverso campagne di prevenzione, offrendo accoglienza, supporto medico, psicologico e orientamento lavorativo alle donne che hanno subìto violenza.
Un lavoro a tuttotondo il nostro, che mira a scardinare le cause e risolvere gli effetti del problema.
Quando arriva il momento di congedarci, Marzia saluta le ragazze con parole sentite e a tratti poetiche, che hanno avuto il potere di disegnare sui volti delle ragazze un sorriso riconoscente e commosso. Il suo discorso iniziava così: “Voi tutte siete forti e siete bellissime”.
La strada da compiere è ancora molta, ma quel che conta è che il percorso è tracciato e il programma insieme a queste donne è iniziato.
Se vuoi saperne di più o se vuoi essere dei nostri, contattami direttamente alla casella: [email protected] oppure telefona al 349.372.7641