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1 Maggio 2023
Ho attraversato l’Amiata in un aprile freddo e terso. Nei borghi che ingentiliscono questo aspro vulcano quiescente, la memoria delle miniere è ovunque. Ogni piazza ha il suo minatore di bronzo che gronda sudore metallico, ogni centro storico il suo circolo di ex minatori, ogni miniera il suo percorso guidato e i suoi anziani “cantastorie”. Dalla loro voce, ad Abbadia San Salvatore, ho udito la gratitudine verso ciò che la miniera garantiva: un buono stipendio, l’assistenza medica, una casa, il rispetto. Ma anche la sofferenza per le conseguenze di quel lavoro: il senso di pericolo quotidiano, il cibo conteso con i topi e i danni fisici che funestavano la vecchiaia. “Dov’erano le donne?”, ha chiesto mia figlia alla decima stanza museo in cui si dipanava un’epopea interamente maschile. “Sono a casa, perché se loro non fossero state a casa, nulla di tutto questo sarebbe esistito”, le ho risposto.
Ciò che permetteva al minatore di essere 12 ore sotto terra era un sistema di donne, mogli o madri, che si occupava di tutto il resto ma soprattutto di nutrirlo e di mantenerlo in salute. Lo stesso meccanismo di donne che ha permesso a ogni tipo di fabbrica di funzionare, a partire dalla rivoluzione industriale in poi. Lo stesso sistema di donne che ancora oggi permette di funzionare a ogni ufficio con dipendenti dai colletti inamidati e dalla carriera misurata sul tempo trascorso alla scrivania.
La miniera dimostra che non ci sono vinti né vincitori in questo sistema. Non è un privilegio passare la vita sotto terra come topi, così come non è un privilegio trascorrerla in casa dovendo dipendere in tutto da un uomo. Sono entrambi schiavi: gli uomini di un lavoro retribuito ma dalle condizioni disumane, che privava loro della libertà di goderne i benefici; le donne di un lavoro non retribuito, che privava loro della libertà di decidere della propria vita.
Firma la petizione, è il tuo fiore per ogni donna a cui è stato rubato il lavoro.
Quando il capitalismo ha codificato la netta divisione tra i ruoli, agli uomini l’attività produttiva, alle donne l’attività riproduttiva, l’ha fatto per una mera questione di funzionalità. Dall’Ottocento in poi, l’attività riproduttiva e di cura era divenuta particolarmente rilevante perché era cruciale poter contare su una progenie di nuovi lavoratori per le fabbriche. Ed era importante che questi fossero in salute, ben nutriti, che vivessero in ambienti salubri. La casalinga, da quel momento in poi, diventa una vera professione con un curriculum di competenze che occorre insegnare attraverso una materia specifica: l’economia domestica. La nascita della casalinga è ciò che permette al capitalismo di esistere, perché adesso può contare su una classe di lavoratori totalmente dedicati alla fabbrica, poiché hanno a casa una persona che si occupa di tutto il resto.
Il lavoro di cura non pagato è arrivato a valere 11 trilioni di dollari, 3 volte tanto il valore di tutto il settore tecnologico. Ed è un lavoro invisibile al Pil, a meno che non venga delegato a una persona retribuita per farlo. La nostra economia si regge su di esso e sulla menzogna che una donna debba svolgerlo “per istinto” o “per amore”. Una menzogna che ha appena due secoli di storia.
Il capitalismo ha scientificamente allontanato le donne dal lavoro retribuito. Lo ha fatto con quella che la grande sociologa Silvia Federici definisce un’opera di ingegneria sociale. Che ha agito su due fronti: la morale e la legislazione. La nuova morale stabiliva che la donna degna di ammirazione fosse quella laboriosa e parsimoniosa, che non dava i figli a balia. La legislazione, contemporaneamente, stabiliva una riduzione dell’orario lavorativo delle donne, un part-time ante litteram che le rendeva meno appetibili sul mercato del lavoro. Nel giro di pochi anni l’opera era compiuta.
Avanti veloce di due secoli ed eccoci in una contemporaneità dove la morale premia ancora la donna che performa al suo massimo nella vita domestica: giudichiamo con severità la madre assente, la moglie sciatta o la donna che non vuole fare figli. Certo, parliamo di conciliazione vita-lavoro. Ma praticamente solo per le donne. E solo per far sì che “il capriccio” di lavorare fuori casa non comprometta il suo dovere di procreare e avere cura di figli e marito.
La legislazione non è da meno: proteggiamo la maternità, non la paternità. Cinque mesi di congedo parentale alla madre, 10 giorni al padre. D’altronde è scritto pure nella costituzione: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione” (art. 37). Ma come ci avvertono i sociologi Francesca Luppi e Alessandro Rosina, «tutte le politiche che mirano a sostenere la maternità senza promuovere una cultura che dia valore al ruolo e al coinvolgimento degli uomini nella cura possono essere considerate implicitamente a supporto di una visione più tradizionale dei ruoli di genere, con la donna-madre casalinga e l’uomo lavoratore».
La verità è che viviamo in una società che non vuole, davvero, che le donne lavorino. Me lo immagino così, il Primo Maggio: un fiore per ogni donna che ogni giorno si immola a quel lavoro non riconosciuto che la tiene prigioniera.
Che conseguenze ha tutto questo? Mi ha sempre molto emozionato che la festa per eccellenza della libertà in Italia, il 25 aprile, fosse così vicina al 1 maggio. Perché queste due idee, lavoro e libertà, sono strettamente connesse.
Una donna che non lavora è automaticamente messa in una condizione di dipendenza da un uomo e di vulnerabilità alla violenza economica, ossia a quella forma di controllo per cui si gestiscono le finanze della partner, oppure non le si permette di avere una propria autonomia e la si tiene sotto il ricatto di negare le risorse economiche. Certo, può essere un patto familiare, una scelta condivisa, quella di dividersi gli ambiti: la donna a casa, l’uomo al lavoro. Ma allora ci vorrebbe un accordo che valorizzi economicamente il lavoro domestico e la cura dei figli, e quel valore dovrebbe essere corrisposto alla donna dallo stipendio del marito (perché è ciò che permette al marito di lavorare e fare carriera). E di quel denaro, la donna dovrebbe disporre liberamente, in parte utilizzarlo per contribuire alle spese comuni ma in parte utilizzarlo per ciò che preferisce. Nessuna economia familiare potrebbe permettersi di pagare una mamma per quanto vale il suo lavoro. Ma si potrebbe partire dalla considerazione di quanto si pagherebbe lo svolgimento di quelle mansioni andandole a prendere sul mercato.
Anche la donna che lavora, però, molto spesso accetta il subdolo ricatto di una società che le chiede di performare come madre e moglie a standard altissimi. E questo significa spesso ridursi l’orario di lavoro, prendere molti mesi di congedo di maternità o rinunciare a opportunità di carriera. Tutte misure che hanno un costo economico, tutte misure che rendono la donna più povera e meno libera di scegliere.
Scegliere, per esempio, di uscire da un matrimonio violento. «Per esercitare il proprio diritto a vivere una vita senza violenza hanno bisogno di un reddito sufficiente, un lavoro sicuro e dignitoso, una casa e servizi pubblici funzionanti. Il rischio è di far tornare le donne, spesso con figlie e figli, dagli autori di violenza, vanificando il loro percorso verso l’autonomia». Così recita la petizione con cui Action Aid chiede al Governo una svolta per garantire reddito, lavoro e autonomia abitativa affinché le donne non ricadano nella spirale della violenza.
Firma la petizione, è il tuo fiore per ogni donna a cui è stato rubato il lavoro.