Protocollo Italia-Albania
Il protocollo tra Italia e Albania in tema di “rafforzamento della collaborazione in materia migratoria” desta sconcerto.
Questo accordo consentirebbe al Governo italiano l’utilizzo di alcune aree del territorio nazionale albanese al fine di realizzare due strutture “per poter velocemente espletare le procedure per la trattazione delle domande d’asilo ed eventualmente ai fini del rimpatrio”, . Le strutture sarebbero realizzate “entro la primavera del 2024” a spese del governo italiano.
Come questo disegno dovrebbe realizzarsi resta, difatti, oscuro.
La lettura del testo lascia infatti molti dubbi.
Sono affrontati, in maniera rapida e superficiale, temi estremamente rilevanti: il trasferimento coatto di cittadini di paesi terzi verso l’Albania, la loro detenzione, le procedure per l’accertamento della loro posizione in relazione al bisogno di protezione.
Trattenuti
Il ricorso a strutture detentive ha già dimostrato di essere fallimentare, come chiaramente emerso nel report “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri” che noi di ActionAid abbiamo redatto con il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari evidenziando un sistema inumano, costoso e ingovernabile.Tornando al dettaglio dell’accordo, sembra un atto politico più che giuridico.
È sintomatico che un cambio potenzialmente tanto netto di gestione dei flussi sia delineato con un accordo in cui mancano riferimenti alla normativa di riferimento sul diritto di asilo e la limitazione della libertà personale.
Anche le specifiche modalità operative del meccanismo restano oscure. In ogni caso, è da rifiutare con forza l’idea di fondo alla base dell’intesa.
Non è tollerabile che si possa effettivamente prendere in considerazioni l’ipotesi di deportare coattivamente in un altro paese le persone che attraversano il Mediterraneo centrale.
A chi per esempio, spetterebbe la giurisdizione nelle zone albanesi dove verrebbero realizzate le strutture?
Né il protocollo né le dichiarazioni degli esponenti del Governo lo chiariscono con la dovuta precisione.
In via generale, l’accordo e le dichiarazioni della presidente del Consiglio sembrano alludere, alternativamente, a due dimensioni diverse: l’acquisizione della giurisdizione italiana sulle aree individuate – che, dal punto di vista del diritto internazionale, è un’ipotesi piena di complesse implicazioni – o la mera “gestione”, da parte italiana, delle strutture, in aperta violazione dei diritti consolidati.
Cosa dice il testo?
Con l’articolo 3 dell’accordo, le parti stabiliscono che “la Parte albanese riconosce alla Parte italiana il diritto all’utilizzo delle Aree”. Successivamente, con l’articolo 4, si stabilisce che le strutture sono “gestite dalle competenti autorità della Parte italiana”. I termini “utilizzo” e “gestione” sembrano alludere a una dimensione molto diversa dalla cessione complessiva di giurisdizione. Anche il terzo paragrafo dell’articolo 4 contribuisce alla confusione in quanto è pattuito che “le competenti autorità albanesi consentono l’ingresso e la permanenza nel territorio albanese dei migranti accolti nelle strutture di cui al paragrafo 1”: non è affatto chiaro dove inizierebbe la giurisdizione italiana e dove finirebbe quella albanese.
Molte altre parti del protocollo risultano ugualmente incerte e destano preoccupazione. Ad esempio, nell’accordo si stabilisce che nelle strutture realizzate in Albania sarebbero applicate le “procedure di frontiera” e, eventualmente, quelle finalizzate al rimpatrio. All’applicazione di queste procedure di frontiera, nel territorio italiano, hanno fatto seguito numerose e rilevanti decisioni giudiziali che hanno disposto la liberazione delle persone trattenute in quanto la normativa di riferimento, in parte rinnovata con il cd. Decreto Cutro, è contradditoria e in aperto contrasto con disposizioni di rango sovranazionale. Nel nuovo scenario, il governo dichiara di voler applicare le stesse procedure, ripetutamente sanzionate dai giudici italiani, in Albania: è un’idea da rifiutare strutturalmente.
Il trasferimento coatto dei migranti in Albania configurerebbe numerose e rilevanti violazioni dei diritti. Da nessuna prospettiva l’ipotesi delineata sembra poter essere compatibile con l’articolo 10 della Costituzione che, al terzo comma, prescrive che: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
In aggiunta, moltissimi profili della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della normativa europea, a tutela del diritto di asilo, della libertà personale e del diritto alla difesa sarebbero calpestati dall’implementazione effettiva di questa proposta.
Alla luce del diritto internazionale e a quello dell’Unione Europea, infatti, l’Italia non può derogare agli obblighi che le competono delegando ad altri paesi le proprie competenze.
Anche nel caso in cui l’eventuale realizzazione del progetto configurasse la giurisdizione italiana su una porzione di territorio albanese, non è difficile immaginare la compromissione dell’effettivo accesso al diritto di asilo e alla tutela giudiziale.
Fin da subito è quindi da respingere con risolutezza l’ipotesi che si possa anche soltanto discutere di questa possibilità e dei suoi eventuali aspetti operativi. Sarebbe un’enorme torsione del diritto di asilo e dei diritti consolidati.
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