Illustrazioni di Gianluca Costantini
Come contrastare le mutilazioni genitali femminili partendo dalle comunità.
È un fenomeno silenzioso, sommerso, eppure diffuso, quello delle mutilazioni genitali femminili. Di questa pratica si parla poco, spesso utilizzando l’acronimo MGF, non solo perché si tratta di un termine lungo da pronunciare, ma anche perché nominare una tipologia di violenza di genere così specifica e vivida rimane, ancora oggi, un tabù.
Espressione della cultura patriarcale, che prescinde dal contesto geografico ed è slegata da qualsiasi dettame religioso, questa pratica attraversa i continenti: secondo Unicef, sono oltre 200 milioni le donne e le ragazze ad aver subito mutilazioni genitali in 92 Paesi del mondo. Il motivo per cui si utilizza il plurale è che l’Organizzazione Mondiale della Sanità distingue le mutilazioni genitali femminili in quattro tipologie. Poiché le conseguenze fisiche e psicologiche variano a seconda dell’esperienza individuale e della tipologia di intervento, però non vi è una scala di gravità.
In Italia, secondo una stima del 2019 realizzata dall’Università Bicocca, le donne e le ragazze ad avere subito uno di questi interventi sono 87.600, di cui 7.600 minorenni principalmente di origine nigeriana ed egiziana. In queste comunità, il rischio varia a seconda di alcuni fattori specifici, tra cui il livello di istruzione e la condizione socio-economica. Dalla ricerca emergono anche differenze generazionali, le ragazze più giovani sono infatti meno esposte alle mutilazioni. Secondo lo studio, le bambine a rischio, nel nostro Paese, rimangono comunque 5mila.
La diagnosi come prevenzione
ActionAid ha sottolineato come il sistema italiano di prevenzione e contrasto di questo fenomeno risulti poco trasparente e tracciabile. Nel biennio 2020-2021, il Numero Verde 800 300 558 contro le mutilazioni genitali femminili, gestito dal Ministero dell’Interno, ha ricevuto appena 13 chiamate, di cui solo 4 inoltrate alle squadre mobili competenti. Eppure, secondo quanto previsto dalle leggi di bilancio dei due anni considerati, a questo servizio sono stati destinati circa 680 mila euro.
Un modo per rendere il sistema più efficace, secondo ActionAid, sarebbe far convergere questo Numero Verde nel 1522, il numero antiviolenza e stalking, allargando la rete dei centri e dei servizi disponibili e formando il personale. La formazione rimane infatti un elemento chiave nella prevenzione delle mutilazioni genitali femminili.
“Non è una questione che riguarda solo i ginecologi,” spiega la dottoressa Barbara Grijuela, ginecologa che, da circa vent’anni, si occupa di pazienti portatrici di mutilazioni. “Ci sono tante figure che dovrebbero essere formate sul tema, sicuramente le pediatre e i pediatri possono giocare un ruolo molto importante nella prevenzione”.
Oggi la dottoressa Grijuela è responsabile del Centro di Salute e Ascolto per le donne straniere e i loro bambini dell’ospedale San Paolo, di Milano, un ambulatorio che offre assistenza medica con un approccio multidisciplinare. Fanno parte del team anche un’assistente sociale, una psicologa e diverse mediatrici culturali. Dal 2015 questo è anche il centro regionale di riferimento della Lombardia per la diagnosi e il trattamento delle mutilazioni genitali femminili.
“Ogni anno accogliamo tra le 450 e le 500 donne nuove e di queste circa il 60% proviene da Paesi a tradizione mutilatoria di tipo uno o di tipo due,” spiega Grijuela. “Sono le tipologie più difficilmente diagnosticabili. Il ginecologo può non accorgersi della mutilazione.” Eppure la diagnosi rimane fondamentale.
Se tra le conseguenze immediate delle MGF, infatti, vi sono rischi di emorragia, lesioni al tessuto genitale circostante e addirittura il pericolo di morte, esistono anche numerose complicanze sul lungo periodo. Tra queste: l’aumento del rischio durante il parto, l’infertilità, infezioni ricorrenti, problemi urinari e relativi alla sfera sessuale. E poi conseguenze psicologiche, tra cui depressione, ansia e stress post-traumatico.
Con gli anni il Centro si è trasformato da luogo clinico in cui si effettuavano interventi di de-infibulazione ad uno spazio in cui si affrontano anche percorsi di riconoscimento e prevenzione.
“Riconoscere la mutilazione permette, con i tempi e i modi adeguati, di fare da supporto alla donna in una presa di posizione rispetto al tema,” spiega Grijuela. La diagnosi, infatti, spesso effettuata nelle visite ginecologiche durante una gravidanza, offre l’opportunità di sensibilizzare la paziente ed evitare che le sue figlie vengano sottoposte alla stessa pratica.
“La gravidanza è un momento in cui la donna è più ricettiva e ci sono 9 mesi per creare un’alleanza terapeutica,” continua Grijuela, specificando che il tempo per le pazienti è necessario. “Quando identifichiamo una mutilazione non ne parliamo immediatamente, perché potrebbe essere traumatico per la donna.” È solo visita dopo visita, con la costruzione di un rapporto di fiducia che si discute la diagnosi, ponendo alla paziente domande aperte. “Se in pancia c’è una bambina, chiediamo alla signora che orientamento ha rispetto al futuro.” Se è necessario viene anche organizzato un incontro congiunto con il compagno, dove si spiegano le conseguenze anche legali dell’intervento. La legge italiana, infatti, punisce penalmente le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, prevedendo la reclusione dai tre ai dodici anni. I professionisti sanitari che eseguono questo tipo di intervento possono essere interdetti dalla professione per un periodo che varia dai tre ai dieci anni.
“Tranne in rarissimi casi c’è una certa apertura,” dice Grijuela. In molti casi questo intervento deriva da una decisione matrilineare, tramandata dalla linea femminile del ramo paterno. “Anche tra i mariti, non c’è mai una presa di posizione, più che altro c’è uno sbigottimento nel dire “ma è mia madre che decide.” Dice Grijuela. “Anche gli uomini vanno sostenuti nel loro potere decisionale.”
Una lotta paziente
Da anni Stella Okungbowa incontra decine di donne e ragazze in diverse zone di Milano, dai centri di accoglienza, alle corsie degli ospedali, a luoghi iconici dei diritti di genere, come la Casa delle donne. L’obiettivo: informare e sensibilizzare sui rischi di questa pratica. Interprete e mediatrice culturale, Okungbowa è community trainer per la comunità nigeriana di Chain, il progetto di ActionAid che punta a prevenire le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni precoci e forzati. “Avevo iniziato nel 2016, con un corso di formazione organizzato da ActionAid,” racconta. Il percorso aveva affrontato la complessità del fenomeno, esplorando sia l’aspetto sanitario che i possibili traumi psicologici.
“Si tratta di una violenza inaudita,” spiega Okungbowa. “Mi sono resa conto che anche io dovevo lottare.” In realtà, la sua è una lotta paziente, in punta di piedi. Come la dottoressa Grijuela, durante ogni incontro Okungbowa si muove in equilibrio su un filo sospeso tra l’ascolto e la scelta delle parole giuste.
Anche per le community trainer costruire la fiducia rimane la cosa più difficile. “Non è scontato. Alcune persone vedono questo ruolo come quello di qualcuno che tradisce la propria patria,” racconta Okungbowa. In diverse comunità, infatti la mutilazione genitale femminile ha una connotazione identitaria legata alla propria tradizione culturale. “Viene tramandata di generazione in generazione, è difficile da modificare,” continua. Condannare questa pratica, spesso considerata come un rito di passaggio all’età adulta, può anche significare sottrarre una ragazza al sistema culturale di riferimento della propria comunità ed esporla al rischio dell’esclusione sociale.
Per questo, prima di esporre le informazioni pratiche e sottolineare i rischi fisici e psicologici delle mutilazioni genitali femminili, Stella Okungbowa ascolta. “In base alle domande che faccio, capisco come approcciare la persona,” spiega.
Se le mutilazioni genitali femminili rappresentano uno strumento di controllo del corpo e della sessualità femminile, le motivazioni per cui sono così diffuse sono diverse e interconnesse. Mentre spesso questi interventi sono effettuati con l’obiettivo di preservare la verginità delle ragazze, sono anche associati al tentativo di raggiungere un’ideale di bellezza in cui è necessario eliminare le parti della donna considerate impure. In alcune comunità si crede che le mutilazioni permettano una migliore igiene degli organi genitali e in altre vi è anche la falsa credenza che siano imposte dalla religione. In realtà, storicamente, questi interventi sono nati prima delle religioni monoteiste e oggi vengono praticati da comunità di religione cristiana, animista e musulmana.
Alcuni genitori decidono sottoporre le proprie figlie a mutilazioni per motivi economici. Nelle comunità in cui le mutilazioni genitali femminili appartengono alla tradizione, infatti, le possibilità di matrimonio aumentano e, se il matrimonio implica una transazione economica, la cifra può aumentare se la sposa ha subito l’intervento.
Il filo tra MGF e Matrimoni Precoci e Forzati
In alcuni casi, le mutilazioni genitali femminili possono rappresentare un ponte per i matrimoni precoci e forzati.
Secondo un rapporto di Unicef le due pratiche sono interconnesse e riconducibili a dinamiche socio-culturali comuni. Alcune delle comunità in cui le ragazze sono più esposte ai matrimoni precoci sono le stesse in cui anche le mutilazioni genitali femminili sono praticate e, a volte, le MGF sono considerate come una procedura necessaria per accedere al matrimonio.
Ottenere dati esatti sulla relazione tra queste due pratiche rimane però difficile. A livello globale, si stima che siano 650 milioni le bambine ad aver subito un matrimonio precoce e forzato.
Una ricerca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha calcolato che i casi di matrimoni precoci in Italia sono più di 150 ogni anno.
Generalmente le cerimonie vengono celebrate nel Paese di origine della famiglia e diventano così uno strumento di isolamento anche geografico per la ragazza che si trova costretta a lasciare l’Italia, spesso per farvi ritorno dopo qualche tempo.
A differenza dei percorsi di sensibilizzazione sui rischi delle mutilazioni genitali femminili, la formazione sui matrimoni precoci e forzati non riguarda solo le donne. “Devono essere presenti degli uomini,” spiega Stella Okungbowa. “È fondamentale coinvolgere anche loro.” Anche in questo caso, la pazienza e l’ascolto sono la chiave per aprire un dialogo. “Bisogna stare attenti, cercare di capire la mentalità, bisogna accogliere, senza andare in conflitto,” continua Okungbowa.
Secondo Benedetta Balmaverde, project manager di Chain, questo approccio in grado di mettere le persone appartenenti alla comunità a proprio agio è fondamentale per la prevenzione.
“Il ruolo della community trainer aiuta tantissimo l’emersione,” spiega Balmaverde, portando l’esempio di come, dopo un intervento di sensibilizzazione nella radio in Wolof, la community trainer senegalese fosse stata avvicinata da una donna che aveva conosciuto durante la sua attività di mediatrice culturale. La donna era uscita da una situazione di violenza domestica e, durante il suo percorso, non si era mai sentita di parlare della mutilazione genitale subita. Sentire parlare la community trainer dell’argomento le aveva permesso di aprirsi.
Per Stella Okungbowa la soddisfazione più grande è arrivata durante un incontro. “Una delle ragazze ha ricevuto una chiamata dalla sorella che aveva appena partorito una bambina in Nigeria,” racconta. “La prima cosa che quella ragazza le ha detto è stata di non fare la mutilazione. Significa che con questo lavoro stiamo informando le donne non solo in Italia, ma anche in Africa.”
Benedetta Balmaverde conferma che il cuore pulsante del progetto di prevenzione è proprio questo scambio continuo di informazioni.
“Le donne delle comunità sono gli agenti chiave di cambiamento,” dice Balmaverde. “Grazie a loro si ottiene un impatto più duraturo. Quando un giorno i progetti finiranno, loro rimarranno e i cambiamenti continueranno.”