La presidenza del G7 è da sempre un’occasione per fare del paese una vetrina, catalizzando l’attenzione dei media internazionali e della società civile. Ma è anche un mezzo per spingere su quelle politiche che stanno a cuore al paese che detiene la presidenza di turno.
Certo, bisogna sempre essere consapevoli che chi presiede non può fare tabula rasa del consenso raggiunto in passato, e che da diversi anni il tavolo preposto al coordinamento internazionale delle politiche economiche e finanziarie è ormai diventato il G20. Proprio per questo, tuttavia, uno stretto dialogo tra le sette economie avanzate dell’Occidente è cruciale. A maggior ragione dal 2014, quando a causa del conflitto ucraino la Russia di Putin è stata esclusa dal vertice.
Fino a maggio dell’anno scorso guardavamo dunque al G7 italiano come a uno strumento utile all’Italia per puntare i riflettori su dossier fondamentali, sottolineando l’importanza di gestire i fenomeni migratori, capitalizzando sui progressi fatti al vertice giapponese del 2016 su energia e clima (per esempio, l’impegno ad abolire tutti i sussidi all’industria fossile entro il 2025) e continuando a lavorare su sviluppo economico in Africa subsahariana, sicurezza alimentare e inclusione di genere.
Già allora eravamo però consapevoli del fatto che, dal momento che il vertice si sarebbe tenuto a cavallo delle elezioni presidenziali francesi, eguagliare i progressi dell’anno scorso non sarebbe stato semplice. Ma il referendum su Brexit a giugno e la vittoria di Donald Trump a novembre – complice il risultato del referendum italiano di dicembre, che ha costretto il nuovo Governo a muoversi in visibile ritardo – ci hanno gettato in uno scenario nuovo, imprevedibile, in cui la ricerca del consenso tra le cancellerie occidentali sembra un retaggio del passato. Il timore è che, in questo contesto mutato, anche i progressi fatti negli scorsi anni – in particolare gli impegni su multilateralismo, clima e commercio – siano a rischio.
A prescindere dalle naturali ambizioni di ogni presidenza, la sfida che attende l’Italia è dunque proprio questa: difendere i progressi fatti fino a qui, proteggere l’esistente. Se saremo capaci di procedere con attenzione e cautela, lavorando di concerto con le diplomazie amiche e spiegando le nostre ragioni a chi invece vorrebbe fare passi indietro, avremo tutelato l’interesse non solo nostro, ma quello di tutte le democrazie occidentali. E avremo dimostrato che l’Italia, a dispetto delle critiche e delle polemiche, sa spesso essere un paese responsabile.