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di Ottavia Spaggiari – Giornalista


La difficile vita delle operaie agricole

Dall’invisibilità al protagonismo

Quando si pensa al caporalato, alla forma più violenta e spietata di sfruttamento lavorativo, nella maggior parte dei casi, la prima fotografia che ci viene in mente è quella di uomini chini sui campi.

Eppure, in Europa, le donne rappresentano il 35% della popolazione impiegata in agricoltura. Il 52% di esse sono impiegate part-time, una tipologia contrattuale che spesso aumenta l’insicurezza, limita le tutele e, anche a causa di salari ridotti, rende le lavoratrici estremamente vulnerabili. Inoltre, in una complessa intersezione di dinamiche discriminatorie ed oppressive, la disparità salariale, il carico di cura dei figli, la vulnerabilità a molestie sessuali e la mancanza di tutele nei mesi della gravidanza espongono le donne che lavorano nell’agricoltura ad un rischio di sfruttamento ancora più elevato di quello a cui sono soggetti i loro corrispettivi maschili.

Come accade per gli uomini vittime di caporalato, molto spesso anche le lavoratrici non si vedono riconosciuti gli straordinari e, chi riceve la busta paga con il minimo contrattuale, in diversi casi è costretta a restituire una parte del compenso perché superiore a quanto stabilito dai propri sfruttatori. Per le donne, soprattutto se straniere, i compensi tendono ad essere addirittura inferiori rispetto a quelli dei colleghi. Ad esempio, se nella Piana del Sele, in Campania, gli uomini percepiscono tra i 40 e i 42 euro al giorno, le lavoratrici ne guadagnano al massimo 28. In Sicilia, le donne incassano dai 25 ai 32 euro a giornata, a fronte degli almeno 40 dei lavoratori.

Dall’analisi di Cambia Terra, il rapporto di ActionAid sullo sfruttamento delle donne nel settore agricolo, è emerso che tra Puglia e Calabria, le paghe medie si aggirano tra i seicento e i novecento euro al mese, per cinque o sei giorni di lavoro nei campi, quando invece, secondo Lucia La Penna, segretaria della Flai Cgil di Taranto, il contratto provinciale stabilisce un salario giornaliero di cinquanta euro e dodici centesimi, che dovrebbe quindi risultare in uno stipendio mensile variabile tra i 1000 e i 1.200 euro al mese.

“Sono trenta euro al giorno per otto, nove, dieci ore di lavoro, senza pause né un bagno dove potere andare,” racconta Maria, operaia in un magazzino di congelati, delegata FLAI FGIL e leader di ActionAid. “Purtroppo, lo sfruttamento in questa parte della Puglia è la regola, non l’eccezione, anche per le persone assunte: aprire la bocca significa non venire più richiamata.”

Nonostante lo sfruttamento delle lavoratrici sia ancora più spiccato, spesso resta invisibile.

La difficile conciliazione tra orari di lavoro massacranti e carichi di cura che ricadono quasi esclusivamente sulle loro spalle, lascia alle donne pochissimo tempo e risorse da dedicare a forme di azione collettiva per ottenere un riconoscimento dei propri diritti. Le donne straniere che provengono da Paesi comunitari spesso non vivono nei cosiddetti ghetti del caporalato e così hanno ancora meno opportunità di fare rete ed esprimere una rappresentanza. “Nei ghetti si creano dei legami,” spiega Grazia Moschetti, referente di ActionAid in Puglia e Calabria. “Si creano associazioni, e per le donne questo non accade. Ecco perché è fondamentale offrire una lettura intersezionale fenomeno.”

È proprio per incoraggiare l’auto-organizzazione delle lavoratrici e rispondere ai loro bisogni che, dal 2016, nel Sud Italia, ActionAid ha sviluppato un programma – anch’esso chiamato Cambia Terra – che punta a formare le donne impiegate in agricoltura sui propri diritti, incentivandone la consapevolezza e facilitando la co-progettazione di servizi di welfare comunitario che possano davvero contribuire ad un miglioramento delle condizioni di vita. Avviato inizialmente in Puglia nei Comuni di Bari, Adelfia, Noicattaro e Rutigliano, Cambia Terra oggi si focalizza su tutto l’Arco Ionico, a cavallo tra Puglia, Basilicata e Calabria, dove le donne rappresentano una componente importante della manodopera agricola e dove vi è una presenza significativa di lavoratrici straniere, principalmente provenienti da Romania e Bulgaria.

Per incentivare il ruolo delle donne stesse come principali agenti di cambiamento, ActionAid ha formato delle operaie ed ex-operaie agricole, che sono diventate leader di comunità, non solo in Italia, ma anche in questi due Paesi, così che le lavoratrici abbiano delle figure di riferimento con un vissuto comune con cui poter scambiare informazioni sui propri diritti.

Maternità e infanzia negate

Sono proprio le donne straniere, spesso reclutate direttamente nei Paesi d’origine, infatti a presentare specificità che le rendono più vulnerabili allo sfruttamento.

Se hanno lasciato i figli a casa, le lavoratrici straniere sono ancora più ricattabili. Se invece hanno portato con sé i propri bambini o hanno partorito in Italia, le lavoratrici straniere vengono lasciate da sole, senza una rete di supporto familiare o amicale, né servizi pubblici su cui poter fare affidamento.

Lavorare nei campi può significare essere costrette ad uscire di casa in piena notte, quando gli asili e le scuole sono ancora chiuse. A volte le donne non hanno altra scelta che portare i piccoli con sé nelle serre, facendoli dormire nelle cassette di legno. “Tanto a chi interessa dove lasciamo i nostri bambini?” dice Adriana, leader di comunità in Calabria ed ex operaia agricola.

Proprio in Calabria il vuoto di servizi pubblici ha offerto un terreno fertile ad un mercato di “asili nido irregolari”, privati che accudiscono a pagamento e in nero tra i cinque e i dieci bambini alla volta nelle proprie abitazioni, senza personale qualificato.

Annarita Del Vecchio, psicologa e collaboratrice di ActionAid in Puglia, ha osservato come le lavoratrici dell’agricoltura si trascinino un carico emotivo e un senso di colpa inimmaginabili da fuori. “Già attorno ai sei o sette anni i bimbi vengono lasciati a casa da soli, quando la notte loro escono”, spiega Del Vecchio. “In genere, la mattina, una vicina li porta alla fermata dell’autobus o dello scuolabus”.  Altre volte, le mamme accompagnano telefonicamente i figli a scuola, l’unico modo possibile per rimanere con loro lungo il tragitto. Oltre ad essere costrette a discriminazioni e turni di lavoro inumani, le madri lavoratrici devono anche convivere con il senso di inadeguatezza di chi è costretto a combattere una battaglia disegnata per la sconfitta: dover scegliere tra andare a lavorare per mantenere i propri figli oppure restare con loro senza riuscire a sfamarli. Secondo il rapporto di ActionAid una madre dell’Est Europa è addirittura stata segnalata ai servizi sociali dalla vicina per abbandono di minore e ha rischiato di perdere la potestà genitoriale.

Maria è leader di ActionAid a Ginosa Marina, in provincia di Taranto, dove è delegata sindacale per la Flai Cgil; qui segue centoquarantacinque operaie agricole, in collaborazione con un altro sindacalista. Oggi sua figlia è un’adolescente responsabile, ma Maria ha trascorso l’infanzia della sua bambina costretta a prendere delle decisioni quotidiane impossibili.  “Uscivo presto, anche alle cinque di mattina: se devi mangiare non hai alternative, purtroppo l’amore non passa dallo stomaco.” Racconta Maria. Sua figlia aveva cinque anni quando aveva cominciato a rimanere a casa da sola. “Quando era malata non potevo mai starle vicino, le mettevo lo sciroppo con la siringa sul comodino e lo prendeva da sola,” continua Maria. “È questa la verità sul sistema, perché chi si permette di assentarsi per un giorno poi viene lasciata a casa per ripicca.”

Nei magazzini in provincia di Bari c’è addirittura l’obbligo degli straordinari. “Decidere di non farli è impossibile perché si è vincolate al trasporto organizzato dall’azienda, ai pullman che spostano la manodopera da una provincia della Puglia all’altra”, spiega Del Vecchio. “Non esiste la possibilità di scegliere. Una donna mi ha detto: pensiamo che la schiavitù sia stata abolita ma non è vero.”

Grazie alla sperimentazione di ActionAid, ad Adelfia, in provincia di Bari, il nido comunale ha adottato orari flessibili, aprendo alle quattro del mattino, proprio per accogliere i figli delle lavoratrici impiegate in agricoltura. Un primo passo che può diventare un esempio per altri comuni nell’Arco Ionico. “Tutte vorrebbero un’infanzia dignitosa per i loro figli, normale, come quella degli altri,” spiega Del Vecchio.

Per molte donne che fanno parte della manodopera agricola, anche portare a termine una gravidanza in sicurezza può essere impossibile. Catalina, una lavoratrice di trentadue anni ha raccontato ad ActionAid di come la mancanza di tutele stia mettendo a rischio la sua salute e quella del bambino che sta aspettando. “Durante il lavoro in campagna sento dei crampi. Sono andata dal ginecologo: potrebbero essere i movimenti di assestamento dell’utero ma corro il forte rischio di perdere il bambino,” ha spiegato Catalina. “Non mi ha dato indicazioni concrete su cosa potrebbe succedere e come dovrei comportarmi. Secondo lui dovrei smettere e basta”. Per Catalina, però smettere di lavorare non è possibile. “Sono obbligata ad andarci, ho bisogno di soldi.”

Una quotidianità di violenze

Essere costrette ad un lavoro di fatica nonostante la gravidanza, non è l’unica forma di violenza a cui sono sottoposte le lavoratrici agricole. Attraverso venticinque interviste con operaie, ricercatrici e ricercatori, psicologhe, sindacaliste e imprenditrici, il rapporto Cambia Terra ha rilevato come le molestie sessuali e i ricatti siano un fenomeno profondamente radicato nel metapontino e nelle aree circostanti in Puglia e Calabria. Nella zona di Bari, da anni, i caporali utilizzando un metodo collaudato.

“La mattina, quando nelle piazze arrivano i furgoni per portare le operaie agricole nei campi, la “prescelta” viene fatta salire davanti, nello spazio accanto al guidatore,” ha spiegato Del vecchio ad ActionAid. “Sul cruscotto vengono messi un cornetto e un caffè caldo, comprati al bar. Mangiare la colazione significa accettare l’avances sessuale e quindi ottenere l’ingaggio. Rifiutando, invece, il giorno dopo si viene lasciate a casa”. Ribellarsi agli abusi significa perdere il lavoro e quindi la fonte di sostentamento per sé stesse e i propri figli.

“Quando non sono aggressioni, sono comunque avances e minacce”, ha raccontato Simonetta Bonadies, psicologa e collaboratrice di ActionAid in Calabria. “Se pensiamo alla violenza come a una rete, quindi a un sistema fatto di violazioni di diritti e di soprusi, tutte le donne con cui ho parlato hanno subito la minaccia di perdere il posto se non si prestavano sessualmente.”

Secondo ricercatori e lavoratrici, nemmeno le denunce alle forze dell’ordine riescono a tagliare l’omertà che avvolge questi abusi. “Io ho denunciato, non ho paura,” ha raccontato Zorina, leader di ActionAid in Calabria, spiegando che spesso sono gli stessi caporali che impongono alle lavoratrici di andare con i datori di lavoro. “E lo sai come funziona? Le forze dell’ordine ti chiedono di aspettare perché nella zona si conoscono tutti. Chiamano il proprietario dell’azienda e cercano una soluzione informale, una compensazione economica.” Secondo Zorina, la mancanza di conoscenza dei propri diritti contribuisce alla creazione di un regime di silenzio che alimenta violenze e abusi: “Il problema delle molestie è che le lavoratrici non se le aspettano, non conoscono i loro diritti, non ricevono informazioni adeguate e così restano zitte.”

Nel nostro Paese anche le istituzioni faticano ad implementare politiche tutelanti per le donne lavoratrici. “Le politiche agricole sono cieche rispetto al genere,” spiega Moschetti. “Non leggono la complessità maggiore”.

Recentemente il Parlamento ha realizzato un’indagine conoscitiva sul caporalato, analizzando l’impatto della legge 119/2016 che sei anni fa ha riformulato il reato di caporalato, introducendo la sanzionabilità del datore di lavoro. Dall’analisi del parlamento, la legge risulta essere solo parzialmente applicata, poiché risulta inadeguata dal punto di vista della prevenzione e della tutela della manodopera. Eppure, persino nelle 33 pagine di testo dell’analisi conoscitiva le condizioni di sfruttamento, vulnerabilità e violenza, a cui sono sottoposte quotidianamente le lavoratrici italiane e straniere in agricoltura non sono state prese in considerazione. Nonostante le condizioni di vita e di lavoro delle lavoratrici immigrate siano peggiorate durante il lockdown della pandemia, il testo del parlamento fa solo un brevissimo riferimento alle forme di ricatto e abuso sessuale. È come se le lavoratrici agricole fossero trasparenti anche agli occhi delle istituzioni.

“I ghetti sono la rappresentazione plastica della riduzione in schiavitù,” spiega Moschetti. “Lo sfruttamento delle donne però è meno visibile”. Anche per questo, aiutare le lavoratrici ad acquisire gli strumenti per la partecipazione e favorire l’emersione del caporalato è fondamentale. “Grazie a Cambia Terra si sono aperti dei luoghi in cui si elaborano le richieste di cambiamento, le leader rappresentano i bisogni di altre donne e via via si arriva a delle soluzione”. Più si è consapevoli dei propri diritti, più si matura la sicurezza di volerli rivendicare e più diventa difficile essere ignorate.


Vuoi saperne di più sul tema e sui nostri progetti nella zona dell’arco ionico?

Ascolta le testimonianze dalla viva voce delle persone, nella puntata del podcast “La mia parte” dedicata al lavoro agricolo e alla rivendicazione dei diritti delle donne in agricoltura.

Il settore agroalimentare è uno dei pilastri dell’economia italiana. Eppure, secondo le stime dell’ISTAT, il tasso di lavoro irregolare tra gli addetti all’agricoltura è il più elevato tra tutti i settori economici: 5 persone su 10 lavorano in nero o non vedono completamente rispettato il proprio contratto. In un settore già problematico – poco controllato e notoriamente interessato dalle infiltrazioni mafiose – c’è una categoria particolarmente vulnerabile alle discriminazioni: quella delle operaie.

Illustrazioni di Gianluca Costantini

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