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Il Dl Lavoro, un primo passo per l’integrazione delle politiche a supporto delle donne che subiscono violenza

A cura di Rossella Silvestre e Isabella Orfano


Approvato dalla Camera dei deputati lo scorso 30 giugno, il Dl Lavoro introduce la nuova misura di contrasto alla povertà nazionale che entrerà in vigore a partire dal 1°gennaio 2024. Per chi si batte quotidianamente per dare adeguata protezione alle donne che hanno subito violenza si tratta di una data importante. Per la prima volta, infatti, il Parlamento ha preso in considerazione la specificità dei bisogni delle donne impegnate in percorsi di fuoriuscita dalla violenza introducendo dei correttivi all’Assegno di inclusione, la misura che, in parte, è destinata a sostituire il Reddito di cittadinanza.   

Cos’è l’Assegno di Inclusione 

Nello specifico, si tratta di un sussidio economico destinato a nuclei familiari con almeno una persona di minore età o ultrasessantenne, con disabilità o inserita in programmi di cura e assistenza dei servizi sociosanitari territoriali. Per beneficiarne è necessario avere un ISEE inferiore a 9.360 euro e aderire a un percorso personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa.  

Cosa cambia per le donne che hanno subito violenza 

Nella sua iniziale formulazione, l’Assegno di inclusione rischiava di ostacolare l’accesso al beneficio alle donne che hanno subito violenza a causa di alcune disposizioni burocratiche. La prima riguarda il calcolo della dichiarazione Isee, che spesso ricomprende il reddito e i beni del coniuge o compagno autore di violenza, falsando quindi l’effettiva situazione economica della donna allontanatasi dal tetto comune. La seconda concerne, invece, l’obbligo di attivazione lavorativa e sociale: chi beneficia dell’Assegno di inclusione ed è idoneo/a al lavoro deve accettare l’offerta di un lavoro distante da casa fino a 80 km nel caso di contratto a tempo determinato o ovunque in Italia se l’impiego è a tempo indeterminato. Se si rifiuta, l’Assegno decade. Tale obbligo mal si concilia con le esigenze specifiche delle donne che intraprendono un percorso di fuoriuscita dalla violenza. Non è pensabile, infatti, che una donna con insufficienti risorse economiche, accolta in una casa rifugio o presa in carico da un centro antiviolenza, interrompa il proprio percorso per trasferirsi in un altro territorio per lavorare, abbandonando – in molti casi – la rete amicale e/o familiare su cui fa affidamento per la gestione dei carichi di cura o altro. 

Questo pericolo è stato scampato grazie all’approvazione di due emendamenti al Dl Lavoro che consentono alle donne che hanno subito violenza, rientranti nella platea beneficiaria dell’Assegno di inclusione, di usufruire di un percorso “agevolato”. In particolare, le donne saranno esentate dagli obblighi di attivazione sociale e lavorativa e potranno costituire nucleo familiare a se stante, anche ai fini del calcolo dell’Isee. In altre parole, alle donne supportate dai Centri antiviolenza e dalle Case rifugio vengono riconosciuti i bisogni di protezione derivanti dalla loro specifica situazione temporanea, nonché la loro effettiva situazione economico-patrimoniale, scollegandola a quella dell’autore di violenza anche in assenza di un provvedimento giudiziario o del decreto di separazione dall’autore di violenza.   

Si tratta di correttivi molto importanti per il riconoscimento e la piena tutela dei diritti sociali ed economici delle donne in fuoriuscita dalla violenza. Adeguare una politica pubblica di contrasto alla povertà anche alle esigenze delle donne che hanno subito violenza significa intervenire in maniera integrata sul problema contribuendo ad ampliare il ventaglio di strumenti e servizi che possono essere utilizzati per supportare la loro indipendenza economica e sociale. Infatti, nella versione licenziata, il Dl Lavoro è un vero e proprio esempio di politica integrata: il tema della violenza maschile contro le donne non è stato relegato all’interno di leggi settoriali, ma incluso in una politica pubblica riguardante questioni di interesse collettivo. 

Si tratta di un primo passo importante, molto però rimane ancora da fare per garantire l’accesso ai diritti socioeconomici a tutte le donne. L’Assegno di inclusione rappresenta infatti una risorsa limitata – l’importo del sussidio economico va dai 50 ai 500 euro al mese per un massimo di 6.000 euro l’anno – per una ristretta platea, ovvero solo donne che hanno subito violenza con minori a carico o facenti parte di un nucleo familiare in cui sono presenti persone disabili o ultrasessantenni. Rimangono quindi escluse molte donne, tra cui quelle single e/o con figli/e di maggiore età. Per questo è prioritario prevedere una misura complementare che garantisca l’accesso a un sussidio economico anche a loro. Il reddito di libertà, istituito nel 2020, se reso strutturale e finanziato adeguatamente, può colmare tale lacuna. Anch’esso va però modificato: la sua durata deve essere flessibile e concordata con le strutture di accoglienza per rispondere alle esigenze specifiche delle donne accolte e la quota mensile deve essere incrementata. Non è possibile pensare che, soprattutto alla luce dei costi dell’inflazione, 400 euro mensili siano sufficienti: in molti casi, non consentirebbero nemmeno di pagare l’affitto di una stanza. 

Infine, è importante sottolineare che la norma relativa all’Isee modifica solo il DL lavoro e non il regolamento generale che disciplina l’accesso alla maggior parte dei servizi di welfare del nostro Paese. È perciò urgente estendere tale novità all’intero ventaglio di servizi di welfare, in quanto rappresentano una risorsa fondamentale per le donne in fuoriuscita dalla violenza impegnate a raggiungere la loro indipendenza socioeconomica.  

Le loro vite rischiano di rimanere congelate da politiche insufficienti.

Non lasciamole sole!

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Immagini social: Sara Ciprandi.

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