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di Ottavia Spaggiari
Illustrazioni di Gianluca Costantini
Da un’emergenza ingestibile a modello a cui guardare
Una città nella città, così si presenta Dharavi, lo slum di Mumbai, il più grande in Asia e tra i più grandi al mondo. Un mosaico di vicoli strettissimi costellati di cemento, lamiere, teli e mattoni che danno origine a circa 55mila abitazioni di fortuna, costruite una sopra all’altra, una accanto all’altra in un labirinto sovrappopolato che, secondo Bloomberg, rappresenta l’insediamento più densamente popolato del mondo. 850mila persone abitano qui, in 2,5 chilometri quadrati, la maggior parte stipate in monolocali, dove non vi è accesso all’acqua e gli unici bagni sono quelli pubblici, circa uno ogni 80 abitanti.
In questo slum, dove le risorse scarseggiano e tutte le misure igienico-sanitarie necessarie per mettere a freno il contagio risultano inapplicabili, a marzo 2020 l’emergenza Covid sembrava impossibile da combattere. “All’inizio la reazione generale delle persone era la negazione,” racconta ad ActionAid Mehul Thakkar, giornalista dell’Hindustan Times a Mumbai. Secondo Thakkar, che ha trascorso mesi a raccontare come Dharavi ha risposto alla pandemia, il pensiero magico di quell’affermazione “a me non accadrà” era diventato una sorta di mantra per scongiurare, almeno psicologicamente, ciò che sembrava un disastro annunciato. “A Dharavi il distanziamento sociale è impossibile e le misure di protezione sono troppo costose,” spiega. Una mascherina qui costa 4 rupie, circa 0.55 dollari, una somma troppo alta per la maggior parte delle persone, quando il reddito medio nello slum è inferiore ai 70 dollari al mese.
Da punto caldo della crisi a modello a cui puntare
Eppure, mentre il resto dell’India è stato travolto da una seconda tragica ondata, che ha portato il Paese oltre i 300mila morti e 27 milioni di casi, Dharavi ha resistito, trasformandosi, secondo gli esperti, da potenziale punto caldo della crisi, a modello a cui guardare. La scorsa estate, anche il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus aveva elogiato pubblicamente il coinvolgimento attivo della popolazione, i test intensivi, il contact tracing, l’isolamento e la cura tempestiva dei malati definendoli come “la chiave di volta per spezzare le catene dei contagi e fermare il virus” a Dharavi. Secondo alcuni scienziati, anche un raggiungimento parziale dell’immunità di gregge, ha contribuito ai buoni risultati nello slum. Uno studio sugli anticorpi degli abitanti, condotto la scorsa estate, infatti, ha dimostrato che circa il 60% della popolazione qui ha sviluppato l’immunità contro il coronavirus. Eppure, i virologi continuano a sottolineare che le misure sanitarie hanno svolto un ruolo essenziale nel contenimento dei casi.
La minaccia rappresentata dall’altissima densità ha catalizzato l’attenzione delle istituzioni locali su Dharavi sin da inizio pandemia, costringendole ad agire tempestivamente. Al posto di sanzioni economiche per chi non indossa le mascherine (una multa a Mumbai si aggira intorno ai 4 dollari, un costo troppo alto per molti abitanti di Dharavi), le misure di contenimento sono state da subito concentrate sul miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, sull’individuazione e la cura dei malati e sull’isolamento.
All’inizio della pandemia, l’intero slum era stato chiuso al resto della città con 24 posti di blocco per monitorare gli ingressi e le uscite. Determinanti, secondo gli esperti, anche l’aumento dei turni di pulizia dei bagni pubblici e l’attivazione di 350 cliniche private con squadre di operatori sanitari impiegate in visite porta a porta per individuare potenziali casi. In soli venti giorni, tra il 9 e il 29 aprile 2020, medici e infermieri avevano visitato circa 55mila persone a Dharavi. Alla fine dello stesso mese le autorità avevano attivato 180 zone rosse all’interno dell’insediamento, chiudendo completamente parti circoscritte dove venivano identificati dei casi.
“Non è facile rispettare il distanziamento quando si visitano le persone nei vicoli,” aveva spiegato all’Hindustan Times, Nazish Shaikh, un medico locale impegnato nei controlli dello scorso anno. “Abbiamo chiesto aiuto agli abitanti del luogo, perché Dharavi è un labirinto e c’è il rischio di perdersi.”
L’attivazione della popolazione locale, però, non è stata immediata. Inizialmente molte persone, anche chi aveva sintomi evidenti, rifiutavano le visite mediche. L’ostacolo numero uno, secondo Thakkar, era la paura dello stigma che poteva arrivare con la diagnosi della malattia. Una paura reale, quando, a inizio pandemia, anche diversi operatori sanitari avevano ricevuto minacce di sfratto e attacchi pubblici. Solo con la dimissione dei primi pazienti ad aprile 2020, le persone di Dharavi hanno iniziato a farsi avanti chiedendo cure mediche. Ma se, grazie ad una campagna di sensibilizzazione, la paura dello stigma, è andata riducendosi, quella, ancora più reale, del disastro economico è rimasta.
“A Dharavi restare a casa è un lusso che la maggior parte delle persone non può permettersi,” racconta Thakkar, spiegando che ad attirare le persone qui è proprio il lavoro.
Questo insediamento sovrappopolato, spesso etichettato dall’Occidente solo come “slum,” rappresenta il cuore commerciale che pulsa al centro di Mumbai, il principale distretto finanziario dell’India. Prima della pandemia, oltre 20mila piccole aziende e laboratori arroccati tra i cunicoli e i vicoli stretti di Dharavi producevano oltre 1 miliardo di dollari all’anno, fornendo prodotti per diverse industrie: dal tessile, alla concia della pelle, al riciclo della plastic, fino alla ceramica. Migliaia di persone sono rimaste improvvisamente senza lavoro e senza reddito dall’inizio della pandemia, con la chiusura forzata di laboratori e aziende durante il primo lockdown nel 2020, la crisi che ne è seguita e il secondo lockdown per frenare la nuova ondata iniziata lo scorso aprile. Moltissimi, senza risparmi e senza una rete di welfare, si sono affidati alle proprie relazioni, chiedendo aiuto a parenti, vicini, e alle organizzazioni locali.
L’intervento di ActionAid nello slum
Per fare fronte all’emergenza economica all’interno di quella sanitaria nello slum, ActionAid ha organizzato una distribuzione di cibo e prodotti igienici. Dei veri e propri kit di sopravvivenza che comprendono, tra le altre cose, riso, farina, sapone e assorbenti. “Con tante persone senza lavoro, le entrate e i mezzi di sostentamento delle famiglie sono state colpite duramente,” riporta l’Ufficio di ActionAid in India. “Anche poter offrire una fornitura di prodotti per un mese può fare una grossa differenza. Aiuta le persone a fare fronte ad altre spese, come l’affitto, l’elettricità e le medicine.”
Tra chi ha ricevuto i kit, sessanta giovani donne di Dharavi, beneficiarie del progetto Young Urban Women, un’iniziativa di ActionAid focalizzata sui diritti delle donne che vivono in ambiti urbani, tra cui i diritti economici e i diritti sessuali e riproduttivi. Alcune delle donne coinvolte vanno ancora all’università mentre le tutte altre, che prima della pandemia avevano contratti precari, hanno perso il lavoro durante l’ultimo lockdown. Mentre le donne che lavoravano in fabbrica sono rimaste a casa con la chiusura, le misure di sicurezza impediscono a chi lavorava in case private come donna delle pulizie di entrare nei palazzi dei propri datori di lavoro. E se il tragico secondo picco sembra essere superato e Mumbai sta pianificando un alleggerimento delle restrizioni, dopo i devastanti costi umani, gli effetti sociali della pandemia, potrebbero rimanere a lungo anche dopo la fine di questa ultima ondata. Come ha rilevato l’ufficio di ActionAid in India, infatti, nonostante i buoni risultati Dharavi, il rischio di essere stigmatizzati per i residenti rimane fuori dai confini dello slum, nel resto di Mumbai, dove, per via delle condizioni igieniche difficilissime, chi viene da qui è visto erroneamente come portatore del virus.
Anche Mehul Thakkar esprime la stessa preoccupazione. “Dharavi non è Mumbai e Mumbai non è Dharavi,” spiega, sottolineando l’isolamento di questa città nella città. “Le autorità hanno fatto del loro meglio, considerando le circostanze,” continua. “Forse sono riusciti a contenere il virus, ma le conseguenze socio-economiche sono ancora tutte da affrontare.”