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Impegni insufficienti e poco ascolto. Ecco perché la COP29 non è andata bene

Una volta all’anno, la Conferenza delle Parti (da qui l’acronimo COP), si riunisce per dare applicazione alla Convenzione ONU sui cambiamenti climatici. Quest’anno noi di ActionAid Italia abbiamo avuto modo di seguire personalmente le negoziazioni, andando a rinforzare la decennale esperienza della federazione di ActionAid International alle COP. Una delegazione composta da colleghi e colleghe provenienti da ogni angolo del mondo, dalla Bolivia alla Danimarca, passando per il Kenya, il Bangladesh, le isole Vanuatu, ha seguito passo dopo passo le negoziazioni, dall’avvio fino agli ultimi concitati momenti dell’accordo raggiunto nel cuore della notte del 24 novembre.  

Dal 1995 a Berlino, fino ad oggi le conferenze annuali hanno acquisito importanza crescente.  

Questo perché oramai viviamo quotidianamente gli effetti della crisi climatica ed è quindi finita la fase in cui le decisioni prese alle COP avevano ripercussioni nel medio periodo.  Per questa ragione, le aspettative in termini di risposte consapevoli e assunzione di responsabilità, sono sempre più alte.  

I tempi però cambiano in fretta. Nel giro di pochissimi anni siamo passati da un aumento della consapevolezza dei limiti di un modello di sviluppo estrattivista, ad una quasi negazione di tali limiti. Il fatto, cioè, che sul pianeta le risorse siano esauribili e che gli effetti, sociali ed ambientali, di questo modello siano la causa della crisi climatica è oggi un assunto che viene rimesso in discussione dopo anni in cui eravamo finalmente riusciti a portarlo al cuore del dibattito.  

La crescente presenza di lobbisti, inoltre, in difesa degli interessi dei produttori di petrolio, agricoltura industriale ed altri gruppi di interesse, contribuisce a dimostrare quanto le COP andrebbero riviste.  

Alla COP29 di Baku, capitale dell’Azerbaigian, abbiamo più che mai avuto modo di toccare con mano questa fase di passaggio che si è rapidamente materializzata sotto i nostri occhi. 

Come detto, alle COP, gli elementi sul tavolo sono molti. In questo caso il cuore della discussione consisteva nell’identificare un obiettivo di contribuzione finanziaria, un numero che fissasse in concreto degli impegni finalizzati a mantenere al di sotto dell’1,5 gradi centigradi l’aumento delle temperature. Impegni finanziari a favore dei paesi del Sud Globale, esposto agli effetti delle emissioni la cui responsabilità storica è da attribuire ai Paesi del ricco nord globale.  

Questo numero è effettivamente arrivato. Si tratta di 300 miliardi di dollari l’anno fino al 2035. Il documento approvato invita altresì tutti gli attori a collaborare per consentire l’aumento dei finanziamenti, fissando la meta di almeno 1,3 trilioni di dollari l’anno entro il 2035. Una formula, però, molto debole e, in queste condizioni, di difficile applicazione.  

Dietro la cifra dei 300 miliardi si nascondono diversi problemi.  

Il primo di questi è di metodo. A differenza dei paesi del Sud Globale, che hanno fatto subito trapelare la cifra di 1.3 trilioni, quelli del Nord hanno mantenuto le intenzioni nascoste fino a circa due giorni prima della chiusura della COP. Emerge chiaramente la volontà di sfiancare l’altra parte ed obbligarla a raggiungere un accordo fuori tempo massimo, ma in assenza di una vera e propria discussione. Una modalità negoziale molto violenta, a tal punto che alcuni paesi (India e Nigeria su tutti) hanno accusato la presidenza della COP29 di aver fatto passare l’accordo senza il loro consenso, dopo caotici negoziati dell’ultimo minuto.  

Il secondo problema sta proprio nel numero. Si tratta di una cifra ampiamente insufficiente ad affrontare in fretta quello che accade ormai ogni giorno. Lo stesso documento riconosce la necessità di maggiori risorse, eppure, la proposta è nettamente inferiore tanto alle richieste che alle aspettative.  

Infine, c’è un problema di qualità. La richiesta principale dei paesi del Sud Globale era di risorse prevalentemente pubbliche e che venissero erogate in modalità diverse dal prestito. Anche questo non è avvenuto. Il documento approvato parla di una molteplicità di fonti, affiancando al pubblico anche le fonti private e quelle provenienti dalle banche multilaterali.  

La richiesta di fondi proviene, è bene ricordarlo, da Paesi che non sono più semplicemente sulla c.d. frontiera climatica, ovverosia quei luoghi particolarmente sensibili ai cambiamenti che stiamo registrando, ma paesi in cui gli effetti catastrofici si osservano ogni giorno.  

Si tratta inoltre di Paesi dove si è innestato un circolo vizioso tra debito e crisi climatica. Paesi, cioè, con alti livelli di indebitamento che non hanno dunque risorse da destinare a misure di adattamento e mitigazione e, per farlo, dovrebbero chiedere nuovi prestiti, esacerbando così ulteriormente la loro condizione. Mercati, inoltre, dove nessuno ha intenzione di investire se non dietro il riconoscimento di tassi di interessi molto alti. 

Qualcuno, usando una metafora molto efficace, ha detto che è come se qualcuno ti incendiasse la casa e poi volesse prestarti i soldi per ricostruirla.  

Questo è lo scenario che lascia la COP29 in eredità a tutti e tutte noi e alla presidenza della trentesima COP che si terrà in Brasile.  

In questi dodici mesi che separano Baku da Belén, l’Azerbaigian dal Brasile, dovremo con forza ricordare che la finanza climatica va intesa come una forma di riparazione a favore di coloro che, pur avendo contribuito poco o nulla all’attuale crisi climatica, ne pagano ogni giorno le conseguenze.  

Photocredit social: Jess Midwinter / ActionAid

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Cristiano Maugeri
Programme Developer - Area Diseguaglianze globali

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