Ovvero, come le dichiarazioni nascondono (le solite) contraddizioni
A cura di Cristiano MaugeriProgramme Developer - Area disuguaglianze globali
I primi giorni della COP di Dubai sono stati caratterizzati da dichiarazioni importanti. Tra tutte, la chiusura dell’accordo su fondo Loss and Damage (L&D) arrivato proprio nelle primissime ore.
L’accordo è imperfetto ma si tratta comunque di una buona notizia. È un fondo però, il L&D, che arriva dopo anni di richieste e ben 27 COP. È dunque importante evitare fraintendimenti, come spiega il nostro Brandon Wu, di ActionAid USA:
“I paesi sviluppati sono stati costretti ad accettare un fondo per le perdite e i danni. Non lo volevano e - guidati in particolare dagli USA - hanno combattuto contro di esso per anni. Hanno annacquato il linguaggio dello strumento di governo del fondo per assicurarsi di non avere alcun obbligo reale di contribuire. Ora che il fondo è stato creato, non devono usare la sua semplice esistenza per sostenere che stanno in qualche modo "facendo la loro parte". L'accordo di oggi è un passo importante, ma è ancora il minimo indispensabile. Per far sì che sia un passo avanti, è necessario che i paesi sviluppati si impegnino immediatamente a contribuire al nuovo fondo”.
Gli impegni per i contributi al fondo non si sono fatti attendere troppo. Centinaia di milioni all’interno di roboanti (e anche spiazzanti, ad essere sinceri) dichiarazioni: il nostro governo, per esempio, ha messo sul piatto 100 mln di euro. Impegno pari a quello della Francia, della Germania e dei padroni di casa, gli Emirati Arabi. Seguono gli altri paesi con cifre meno significative.
Siamo dunque diventati tutti/e paladini della giustizia climatica? Non esattamente. Nonostante il L&D, siamo ancora molto lontani (ma molto molto) dal garantire impegni finanziari all’altezza degli effetti catastrofici che la crisi climatica sta producendo. Impegni che, per inciso, dovrebbero viaggiare nell’ordine di grandezza di trilioni di dollari.
Mentre esultiamo (moderatamente) per un risultato importante, è bene non dimenticare che sarà fondamentale valutare la bontà dei soldi messi a disposizione per il fondo. Andrà, per esempio, verificato che non si tratti di fondi già messi a disposizione e semplicemente spostati dentro il L&D (robbing Peter to pay Paul come sottolineato dai/dalle colleghi/e irlandesi) per cercare il colpo ad effetto, o che il fondo funzioni solo in minima parte attraverso prestiti e garanzie e invece sia prevalentemente basato su grant (sovvenzioni e/o dono, quindi senza interessi). Senza considerare la discussione legata alle problematiche di permettere che il fondo venga “ospitato” dalla Banca Mondiale (qui l’esperienza a dir poco controversa della Global Partnership for Education).
Non è chiaro, infine, se si tratti di fondi una tantum o un impegno di contribuzione annuale. Insomma, bene l’istituzione del fondo (finalmente!) ma, guardando le cose con maggiore attenzione la voglia di festeggiare diminuisce.
Ma allora, quale potrebbe essere davvero una buona notizia?
L’accordo di Parigi del 2015, all’articolo 2.1, parla della necessità di “rendere i flussi finanziari coerenti con un percorso che conduca ad uno sviluppo a basse emissioni di gas a effetto serra e resiliente al clima”.
Ecco, leggere nelle azioni e soprattutto negli impegni quella coerenza di cui parla l’art.2.1 sarebbe di certo una buona notizia. Anzi, sarebbe La Notizia, vista l’importanza del tema finanza a COP 28.
A questo punto la domanda chiave diventa: i paesi, compresa l’UE, che oggi dichiarano entusiasti la contribuzione al fondo, stanno facilitando la creazione di una finanza coerente con gli obiettivi dell’accordo di Parigi?
Di certo si sono fatti enormi passi avanti, ma i numeri, da una parte, e i comportamenti, dall’altra mettono in risalto l’incoerenza (e dunque ipocrisia) alla quale assistiamo. Gli effetti della crisi climatica non sono più alle porte, sono già a casa nostra. I passi avanti non servono più. Bisogna fare dei lunghi balzi per tenere sotto controllo l’aumento delle temperature. Anche perché la crisi climatica è, fra le altre cose, anche una crisi sanitaria. La Banca Mondiale stima che un ulteriore aumento delle temperature potrebbe portare almeno 21 milioni di morti in più entro il 2050.
Torniamo, dunque, ai numeri. L’ultimo rapporto di ActionAid, nell’ambito della campagna #fundourfuture, ci dice che le banche europee finanziano combustibili fossili e agricoltura industriale nel solo global south per oltre 40 miliardi di euro l’anno, contro i 9,7 investiti in finanza per il clima. Un rapporto di 1 a 4 dunque. In soldoni, finanziamenti per 280 miliardi dalle maggiori banche europee sono andati a finanziare fossile e agribusiness, dalla firma dell’accordo di Parigi ad oggi. Di fronte a questi numeri, gli impegni verso l’L&D impallidiscono.
Nella lista delle 10 banche maggiormente responsabili degli investimenti di cui sopra, ce ne sono 4 francesi (BNP Paribas, Société Générale, Crèdit Agricole e Groupe BPCE), 2 italiane (UniCredit e Intesa Sanpaolo) 2 olandesi (ING Group e Rabobank), 1 tedesca (Deutsche Bank) e 1 spagnola (Santander).
Sei banche su dieci sono ospitate da Francia e Italia dunque. Che poi sarebbero anche i maggiori contributori al L&D. Ritorna la domanda di prima: questi due paesi stanno contribuendo alla creazione di una finanza coerente con gli obiettivi climatici?
La mancanza di coerenza, tuttavia, non emerge solo dai numeri. Il governo italiano, per esempio, a novembre 2021 ha firmato la dichiarazione di Glasgow, un impegno congiunto per porre fine a nuovi finanziamenti pubblici internazionali per progetti di estrazione, trasporto e trasformazione di carbone, petrolio e gas entro il 31 dicembre 2022. Le cose non stanno andando così e, pochi giorni fa, insieme a 30 organizzazioni della società civile africana, abbiamo scritto al governo per ricordagli questo impegno.
L’ultimo punto, forse il più urgente visto la partita che si sta per chiudere è quello sulla direttiva sulla due diligence obbligatoria in materia di diritti umani ed ambiente. Anche qui, osservando nel dettaglio il comportamento dei governi che partecipano alla discussione, emergono lampanti ipocrisie. Nonostante appaia da molteplici studi che le banche siano le principali responsabili della crisi climatica il tentativo di escludere la finanza dalla direttiva sembra essere inarrestabile.
La Francia sta facendo di tutto per evitare che la finanza rientri nell’ambito di applicazione della direttiva. Direttiva che, tuttavia, rappresenta un’opportunità storica, eppure è continuamente sotto attacco. In queste ultimissime ore di negoziato (quella che potrebbe essere l’ultimo incontro politico è previsto per il 13 dicembre), forze di ogni tipo stanno esercitando pressione per ridimensionare ulteriormente un testo che ha già sofferto grandi tagli.
A questo punto la domanda iniziale diventa, purtroppo, un puro esercizio di retorica: i paesi, compresa l’UE, che si spendono all’esterno come paladini della necessità di trovare soluzioni alla crisi climatica, stanno facilitando la creazione di una finanza coerente con gli obiettivi dell’accordo di Parigi?
Aiutaci a fermare l'emergenza climatica adesso!