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Il cambiamento climatico non conosce frontiere

Il rapporto che analizza i vari aspetti normativi, politici e concettuali che caratterizzano il nesso tra ambiente e migrazioni


Cambiamento climatico e mobilità umana 

Il Sesto Rapporto di Valutazione dell’IPCC evidenzia le devastanti conseguenze del cambiamento climatico: distruzione di abitazioni, perdita dei mezzi di sostentamento di milioni di persone, eventi ambientali  estremi, carenza d’acqua, diffusione di malattie, riduzione della produttività agricola e aumento della povertà. I rischi e le vulnerabilità crescenti stanno già influenzando la mobilità umana sotto forma di migrazione interna e transfrontaliera e di spostamenti forzati. 

Il rapporto che lanciamo oggi, “Il cambiamento climatico non conosce frontiere”, analizza i vari aspetti normativi, politici e concettuali che caratterizzano il nesso tra ambiente e migrazioni. Inoltre, offre uno sguardo sul caso specifico del Gambia, uno dei paesi africani dove la migrazione interna e internazionale è rilevante e le conseguenze della crisi climatica sono sempre più evidenti attraverso siccità, desertificazione, alluvioni, salinizzazione ed erosione del suolo. 

Nonostante le migrazioni e gli spostamenti forzati siano sempre più visti come il risultato degli effetti dei cambiamenti climatici, la mobilità umana è un fenomeno multi-causale e i fattori ambientali sono più opportunamente identificati come minacce o moltiplicatori di vulnerabilità, capaci di esacerbare condizioni di iniquità preesistenti così contribuendo, tra gli altri fattori, alla scelta migratoria. 

Il caso del Gambia 

La ricerca condotta in Gambia da Christopher Horwood e Katy Grant di Ravenston Consult, di cui il rapporto che presentiamo offre una sintesi, mostra che la mobilità climatica è un fenomeno complesso, variegato e fortemente influenzato dal contesto. Inoltre, include anche l’(im)mobilità, sia volontaria che involontaria. Da un lato, quando gli shock climatici riducono le risorse disponibili, le famiglie non possono spostarsi e rimangono “intrappolate” nelle loro aree di origine. Dall’altro, la scelta di restare può essere volontaria, nonostante il deterioramento delle condizioni di vita. 

È lecito parlare di migranti climatici? 

Tra la fine degli anni ’90 e la prima decade del XXI secolo, si è sviluppato un intenso dibattito sulle migrazioni ambientali, con due visioni opposte: chi minimizzava il problema e chi enfatizzava il carattere forzato della mobilità climatica. Questi ultimi si dividevano ulteriormente tra chi vedeva nelle migrazioni climatiche una minaccia alla sicurezza dei confini e chi parlava di rifugiati climatici, termine problematico dal punto di vista legale, politico e concettuale. 

Ancora oggi è difficile definire chiaramente il “migrante climatico“, poiché gli spostamenti sono causati da molti fattori e l’impatto ambientale varia a seconda del contesto e delle persone coinvolte. All’interno delle Nazioni Unite, si parla di – mobilità umana nel contesto dei disastri, cambiamento climatico e degrado ambientale –. 

Non solo c’è dibattito su quale termine usare per descrivere il fenomeno, ma anche se sia necessario usarne uno solo. Nonostante l’aumento degli studi sulle migrazioni climatiche future, i dati presentano ancora notevoli limiti metodologici. Tuttavia, rispetto alle stime catastrofiste del passato, quelle più recenti mostrano che la mobilità climatica avviene prevalentemente all’interno dei confini nazionali, piuttosto che a livello internazionale. 

Sebbene il termine “rifugiato climatico” sollevi criticità legali e politiche, poiché non è riconosciuto dal diritto internazionale, l’aumento degli spostamenti dovuti a fattori ambientali rende urgente adottare meccanismi di protezione sia a livello internazionale che nazionale. È necessario, in tal senso, offrire forme di protezione per chi si sposta per motivi ambientali. 

Tuttavia, nel contributo di Francesco Ferri e Lorenzo Figoni, finché le politiche migratorie saranno basate sulla deterrenza, sarà difficile trovare soluzioni efficaci per proteggere chi migra a causa dei cambiamenti climatici. Sebbene sia improbabile l’istituzione di un nuovo regime internazionale di protezione legale per i migranti climatici, è essenziale sviluppare nuovi approcci che amplino le opportunità di protezione, includendo le varie caratteristiche e forme di questo fenomeno. Ad esempio, anche se esistono forme di protezione umanitaria per rispondere agli eventi ambientali improvvisi, le persone colpite da fenomeni graduali (come l’erosione dei suoli e la salinizzazione dei terreni) sono più numerose e hanno meno possibilità di accedere a tali protezioni. Grazie al contributo di Chiara Scissa, il rapporto offre un’analisi critica e dettagliata del caso italiano, che prevede diversi status giuridici per proteggere le persone sfollate dai disastri, nonostante l’attuale governo populista e anti-immigrazione. 

Dal 2010, l’idea di vedere la migrazione come un adattamento ai cambiamenti climatici è diventata più diffusa. Questo approccio, più ottimistico, considera la mobilità una soluzione alle crisi ambientali, ma è criticato per non evidenziare adeguatamente la responsabilità dei Paesi industrializzati e le sfide dei diritti umani e della giustizia climatica. 

La situazione a livello di governance internazionale 

La governance della mobilità climatica internazionale è frammentata e caratterizzata dalla competizione per le risorse. Iniziative come il Global Compact on Migration riconoscono il legame tra migrazione e cambiamenti climatici, ma mancano di vincoli e di un’implementazione efficace. E la protezione dei diritti umani è secondaria rispetto agli interessi nazionali. 

Anche nell’Unione Europea, le risposte politiche sono frammentate e incoerenti. Tra le principali iniziative della Commissione Europea sotto la presidenza di Ursula Von Der Leyen ci sono il Green Deal Europeo e il Nuovo Patto sulla Migrazione e sull’Asilo. Tuttavia, come evidenziato da Chiara Scissa nel suo contributo, non ci sono sinergie tra queste strategie. 

Le politiche di risposta alle migrazioni climatiche si basano sulla deterrenza e l’esternalizzazione delle frontiere, concentrandosi sulla dimensione esterna e usando le politiche climatiche e la cooperazione allo sviluppo per promuovere l’adattamento in loco. Questo approccio trascura l’espansione della protezione legale interna come intervento efficace per sostenere la migrazione come adattamento ai cambiamenti climatici. 

In conclusione, il rapporto evidenzia la complessità del legame tra clima e migrazione, spesso semplificato in modo eccessivo e strumentale. Questa complessità non dovrebbe giustificare l’inazione della comunità internazionale. a tal fine, è necessario adottare un approccio olistico basato sui diritti, prevedendo intervento su molteplici aree di policy. 

Attualmente, la governance delle migrazioni climatiche evidenzia un approccio tecnocratico e non considera adeguatamente i diritti umani, concentrandosi su buone pratiche a livello sub-regionale e nazionale finanziate dalla cooperazione allo sviluppo. Il sistema di protezione internazionale offre poche opportunità per i migranti climatici. Tuttavia, anche se un regime di protezione legale internazionale sembra improbabile, è fondamentale sviluppare nuovi e più efficaci approcci per ampliare le possibilità di protezione per chi si sposta a causa di disastri, cambiamenti climatici e degrado ambientale.  

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Photocredit: Amadou W. Jallow

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