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22 Luglio 2021
di Ottavia Spaggiari
Illustrazioni di Gianluca Costantini
Essere privati del medico di base, del pediatra, del servizio sanitario nazionale. Non poter accedere ai nidi comunali ed essere discriminati nell’accesso alla mensa scolastica. Difficoltà nell’accesso ai vaccini e non poter votare. Il prezzo pagato da chi non può iscriversi all’anagrafe e, di conseguenza, non può ottenere la residenza anagrafica è altissimo e, in Italia, sono migliaia le persone escluse dall’esercizio di diritti fondamentali per questo motivo.
Per chi ha una casa, di proprietà o in affitto, l’iscrizione anagrafica è una pratica risolvibile con una semplice fila all’ufficio comunale, una delle tante faccende burocratiche a cui non si dà troppa importanza, da sbrigare tra un giro alle poste e un caffè al bar.
Per chi, invece, una situazione abitativa permanente non l’ha, o non può dimostrarla, quella che dovrebbe essere una veloce commissione si trasforma in una condanna all’esclusione socioeconomica e alla privazione di diritti fondamentali.
“La residenza è un sogno e io che non ce l’ho, ho passato tante notti sveglia, per le preoccupazioni.” Lana è tra le migliaia di persone presenti nel nostro Paese che, non riuscendo a presentare un regolare contratto di affitto o di proprietà, non possono iscriversi all’anagrafe e, di conseguenza, non possono ottenere la residenza. La ragione: una complessa concatenazione di norme restrittive e pratiche illegittime che tendono a discriminare le persone più vulnerabili.
Arrivata in Italia nel 2009, ad appena 22 anni, Lana aveva lasciato nella sua Tbilisi, in Georgia, il marito e il figlio di un anno. A Roma aveva trovato un’occupazione come assistente domestica e una stanza nell’abitazione in cui lavorava. Quattro anni dopo, Lana riesce a ricongiungersi con la sua famiglia. La stanza in cui vive però è troppo piccola per ospitare anche il figlio e il marito e quando rimane incinta di una bambina, trovare un nuovo spazio diventa necessario. “Con il nostro reddito non riuscivamo a pagare un affitto e tutte le spese,” spiega Lana ad ActionAid “non sapevamo come fare”. È così che, con la famiglia, Lana si sposta nello scantinato di una palazzina dell’Ater della Regione Lazio, a Quarticciolo, un quartiere nella zona Est della capitale. “Era il 2015, non trovavamo alcun posto dove andare: abbiamo saputo di questo scantinato, e ci siamo trasferiti,” racconta.
Nello stesso quartiere, composto interamente da edilizia residenziale pubblica, sono moltissime le persone che, come Lana, hanno trovato alloggi informali e che, proprio per questo, sono rimaste escluse dalla residenza. Se infatti entrando nello scantinato, Lana e il marito hanno risolto l’emergenza pressante di un’abitazione, questo trasferimento ha segnato, di fatto, un’esclusione dalla residenza anagrafica e da tutti quei diritti che ad essa sono collegati. Il più grave: il diritto alla salute. La bambina di Lana ha un problema alla vista ma, senza residenza, alla famiglia non può essere assegnato il medico di base. “Mia figlia non ha il pediatra,” spiega. “Ogni tre mesi devo portarla dall’oculista e sono costretta a rivolgermi a una clinica privata, pagando 140 euro a visita,” una cifra insostenibile per la famiglia.
Come per Lana, in molti casi, l’origine dell’esclusione dalla residenza è riconducibile all’articolo 5 del cosiddetto decreto Lupi del 2014, che impedisce l’iscrizione anagrafica a chi vive in stabili occupati.
“Il problema di fondo è che ai fini dell’iscrizione anagrafica, le amministrazioni locali su gran parte del territorio nazionale pretendono di vedere un contratto d’affitto o un documento che attesti la proprietà dell’abitazione,” spiega Francesco Ferri, Programme Developer Migration di ActionAid. Questa pretesa rappresenta però una prassi illegittima, utilizzata dalle amministrazioni comunali per assicurarsi che le persone non stiano occupando un immobile in modo abusivo.
In realtà, secondo la legge, l’occupazione abusiva diventa tale solo quando il proprietario ha intrapreso un’azione legale. “Nei contesti urbani ci sono tante persone che vivono pagando l’affitto in nero, in subaffitto, oppure ospitati da altri,” dice Ferri.
“Esistono mille forme dell’abitare che non contemplano l’occupazione ma che non forniscono un riconoscimento giuridico della posizione della persona.” E, di conseguenza, non sono accettate dagli uffici anagrafici. “Il grande equivoco è che l’anagrafe non può essere un giudizio sulla qualità dell’abitare della persona,” continua Ferri. “Deve essere, coerentemente con ciò che ci dice il codice civile, solo la presa d’atto della presenza della persona sul territorio.”
Nel nostro Paese tutte le persone regolarmente presenti sul territorio nazionale hanno diritto all’iscrizione anagrafica. Anche chi occupa in modo illegittimo un immobile. In questo caso, la persona dovrebbe essere iscritta come “senza fissa dimora”, indicando la residenza ad un indirizzo fittizio.
“Usare l’anagrafe maniera escludente vuol dire rifiutarsi di vedere le persone che sono presenti sul territorio,” spiega Enrico Gargiulo, professore di sociologia all’Università di Bologna. Secondo Gargiulo, questo rifiuto è legato a ragioni sia politiche che economiche. Sin dalla sua creazione, l’anagrafe ha sempre rappresentato un terreno strategico di negoziazione tra lo stato centrale e le amministrazioni locali che, dalla fine dell’ottocento, avevano un interesse a non registrare le persone che erano ospedalizzate per non doversene assumere l’onere finanziario. “Le persone in condizioni di vulnerabilità gravano sul bilancio,” afferma Gargiulo, secondo cui, questa convinzione è tra i motivi per cui, storicamente, molti comuni si sono sempre rifiutati di istituire un indirizzo virtuale a cui iscrivere le persone senza fissa dimora. “La posta in gioco è il costo sociale delle persone,” spiega.
Escludere dalla residenza significa anche escludere le persone più vulnerabili dall’accesso a qualsiasi tipo di sostegno sociale, dalla presa in carico, all’accesso agli alloggi pubblici, al reddito di cittadinanza. In molti casi, significa privare intere famiglie dell’opportunità di migliorare la propria condizione. “Non posso ottenere il buono libri per mio figlio di tredici anni, né presentare domanda per la riduzione del costo della mensa scolastica,” racconta Lara. “Sono quindi costretta a pagarla a prezzo pieno.” Per lei, come per molti altri genitori, non essere iscritta all’anagrafe si traduce in un ostacolo all’istruzione dei figli.
“La residenza è il diritto ad esercitare altri diritti,” spiega Gargiulo.
Ad incontrare gli ostacoli più grossi all’iscrizione anagrafica, fino agli anni novanta, erano le persone senza tetto e appartenenti alle comunità romanì. Con l’incremento dei flussi migratori, sono sempre di più i cittadini di origine straniera ad essere penalizzati. Persone per cui avere accesso al mercato immobiliare e ottenere un regolare contratto di affitto risulta spesso difficilissimo.
A Roma, Lana ha da poco presentato la richiesta di residenza come “persona senza fissa dimora.” “Non sapevo ci fosse questa possibilità, nessuno mi aveva mai informata,” racconta. “Ho chiesto al Comitato di quartiere, che mi ha aiutata ad avere un colloquio con l’assistente sociale.”
Come lei, sono moltissime le persone che vivono in alloggi informali e che avrebbero diritto ad essere iscritti all’anagrafe come “senza fissa dimora” ma che non sono mai state informate di questa procedura. “L’asimmetria informativa è un problema centrale,” spiega Gargiulo. “Molte persone ovviamente non conoscono la normativa e sono oggetto di discriminazione senza accorgersene”.
Nella Capitale, l’indirizzo fittizio a cui è possibile iscriversi è Via Modesta Valenti, intitolato ad una donna senza fissa dimora, morta una mattina di gennaio del 1983 dopo aver trascorso una notte al freddo e dopo che, per ore, diversi ospedali si erano rimbalzati la responsabilità di soccorrerla. Se, sul piano simbolico, la via fittizia intitolata a questa donna sembra indicare, per le istituzioni romane, l’impegno ad un trattamento migliore delle persone senza un alloggio stabile, nel concreto, l’iscrizione come “senza fissa dimora” è un percorso ad ostacoli.
Mentre, secondo la legge, ogni tipologia di iscrizione anagrafica deve essere completata entro 48 ore dalla presentazione della dichiarazione di residenza, per chi si iscrive come “senza fissa dimora,” la procedura diventa lunga e incerta, in particolare nella capitale.
A partire dal 2017, il comune di Roma ha inserito come requisito per la registrazione della residenza fittizia un colloquio preliminare con i servizi sociali, come quello a cui ha preso parte Lara, un passaggio non previsto dalla legge che dilata i tempi dell’iscrizione.
Secondo un rapporto di ActionAid, elaborato con il Comitato di Quartiere Quarticciolo: “I ritardi degli uffici del V Municipio nel rilasciare la residenza, in particolar modo quella per persone senza fissa dimora, hanno portato le persone all’esasperazione.” Inoltre, secondo diversi esperti, essere iscritti senza fissa dimora si traduce spesso in una discriminazione. Lo stesso report ha evidenziato come la Questura di Roma neghi sistematicamente il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno a chi è registrato all’anagrafe come senza fissa dimora e come queste persone abbiano una maggiore difficoltà di accesso ai servizi. “Essere iscritto senza fissa dimora è stigmatizzante,” spiega Pietro Vicari, attivista del Comitato di Quartiere Quarticciolo. “Vieni considerato una persona fragile. Ci si vergogna, si ha paura di essere discriminati ai colloqui di lavoro. Tante famiglie del quartiere pagano qualcuno per ottenere un altro indirizzo,” continua. Se infatti chi vive in situazioni abitative informali, a volte, riesce ad ottenere la residenza presso l’abitazione di familiari, amici e conoscenti in forma gratuita, molti titolari di contratti di affitto e proprietà regolari vendono ad altri la possibilità di registrare la residenza presso la propria casa.
È nato così un vero e proprio mercato delle residenze che espone le persone più fragili al ricatto economico. Essere costretti a comprare la residenza significa essere costretti a comprare l’accesso a diritti basilari. Questo però comporta il rischio di rimanere esclusi da qualsiasi aiuto pubblico. L’accesso al welfare, infatti, è legato spesso al calcolo delle condizioni economiche di tutto il nucleo familiare.
Questo meccanismo offre inoltre una fotografia falsata del territorio. “Il risultato è un problema nel problema,” continua Vicari. “Vuol dire avere servizi inefficienti per tutti, significa avere assistenti sociali che non riescono a lavorare, iscrizioni agli asili nido falsate, si tratta di un problema cumulativo.”
L’iscrizione di persone residenti in stabili occupati in modo informale come senza fissa dimora contribuisce al caos. Al momento a Roma sono 19mila le persone iscritte in questo modo. Non si distingue più tra chi è iscritto perché non ha una casa e chi, invece, come Lana, ha un luogo fisico in cui abitare che però non è riconosciuto. Inoltre, l’inserimento del colloquio coi servizi sociali, ha rappresentato un ulteriore barriera: secondo ActionAid fino al 2017 le persone inscritte senza fissa dimora a Roma erano circa il doppio.
Nonostante gli ostacoli, per Lana, l’iscrizione in Via Modesta Valenti, rimane l’unica strada per accedere alla residenza. “Questo è il paese dove ho scelto di vivere,” racconta. Il sogno di Lana è la cittadinanza e la residenza anagrafica è un requisito chiave per presentare domanda. “Un giorno spero di potermi comprare una casa, dove poter vivere tranquilla, finalmente con una residenza riconosciuta,” dice. “Vivo in Italia da dodici anni. Qui è nata mia figlia. Ho sempre avuto il permesso di soggiorno, e lo stesso mio marito. Eppure non siamo mai riusciti ad avere la residenza e questo significa vivere sospesi, non essere riconosciuti dallo stato. Ti senti una persona abusiva, senza diritti, come se fossi un gradino sotto gli altri”. A Lana, come a molti altri, non resta che aspettare.