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4 Marzo 2021
di Elisa Virgili e Rossella Silvestre - Programme Officers
Nel 1977 il collettivo femminista di Varese “Gruppo Immagine” scriveva sui cartelloni: “anche l’amore è lavoro domestico”. Un’affermazione forse eccessiva, ma erano gli anni del femminismo della “seconda ondata” che, tra le altre rivendicazioni, portava avanti quella del salario per le casalinghe, con il gusto dell'ironia e della provocazione che caratterizza i movimenti. Erano gli anni in cui l'artista Milli Ghandini inventava lo slogan “La mamma è uscita!” e scriveva con l'indice sui mobili di casa sua ricoperti di polvere che lasciava depositare rifiutandosi di pulire casa. Come a dire: se non la pulisco io chi lo fa? Se non lo fanno le donne il lavoro di cura chi lo fa?
Cosa ci rimane di quella polvere accumulata e di quelle rivendicazioni? Nonostante la situazione rispetto alle nostre madri e alle nostre nonne sia radicalmente cambiata, i dati ci mostrano che il lavoro di cura ancora ricade principalmente sulle spalle delle donne e frasi come “che bravo tuo marito che ti aiuta in casa”, ci rivelano come sia necessario un cambiamento strutturale che intervenga sia sul livello culturale, che su quello politico ed economico.
Prenderci cura di una persona implica una serie di gesti e investimenti emotivi che facciamo proprio per stare in relazione. Così come occuparci della casa, ad esempio, serve a mantenerla. Tutto questo è a tutti gli effetti un lavoro, anche se troppo spesso sottostimato e, per tale ragione, invisibile a livello sociale ed economico.
Si pensi, ad esempio, al risparmio per le casse dello Stato derivante dalla scelta delle famiglie di accudire i/le propri/e genitori/trici anziani/e invece che metterli/e in una casa di riposo (pubblica); o alle madri che scelgono più o meno forzatamente di rimanere a casa con i/le propri/e figli/e piuttosto che ricorrere ai servizi educativi.
Tutto questo pesa principalmente sulle spalle delle donne, non sempre per loro scelta, bensì perché considerate “più portate a farlo”. Inoltre, che questo sia effettivamente un lavoro lo si intuisce anche dal fatto che a volte queste attività sono retribuite, come nel caso di lavoratrici domestiche e badanti, non casualmente quasi sempre figure femminili.
Per lavoro di cura non retribuito intendiamo allora tutte le attività e le occupazioni che direttamente o indirettamente riguardano processi di cura e include una varietà di attività non retribuite come cucinare, pulire la casa, prendersi cura di persone non-autosufficienti, mantenere le relazioni familiari, fare il bagno a figli/e, assistere genitori/trici anziani, o organizzare vacanze.
L’8 marzo, da ormai 5 anni, il movimento femminista Non Una Di Meno lancia lo sciopero generale delle donne al grido “se ci fermiamo noi si ferma il mondo”, proclamando l’astensione dal lavoro produttivo e riproduttivo (o lavoro di cura).
Ma cosa significa effettivamente astenersi dal lavoro riproduttivo? Se non ha orari ed è necessario, come si fa a scioperare dal lavoro di cura?
Scioperare dal lavoro di cura significa astenersene per il modo tradizionale in cui lo intendiamo proprio per mettere in evidenza quanto sia indispensabile e ingiustamente distribuito. Scioperare dal lavoro riproduttivo non significa non andare a prendere le figlie o i figli a scuola o non occuparsi per un giorno di familiari anziani/e. Significa richiedere misure di welfare adatte e pretendere un cambiamento culturale. Significa fare uscire da casa il lavoro che facciamo tutti i giorni e renderlo visibile.
Oltre la polvere, i dati.
Secondo l'OIL (2018) il lavoro che ogni giorno le donne svolgono gratuitamente a livello globale è il 76,2% di tutto il lavoro di cura e domestico non retribuito. E per farlo, le donne gli dedicano il triplo del tempo degli uomini. Il suo valore economico è stato stimato, sulla base di un salario minimo orario, vale circa il 9% del Pil globale (OIL, 2018) e il 5% di quello italiano (Francavilla, Giannelli, 2019). Si tratta di valori che però a seconda della metodologia di calcolo utilizzata possono tradursi in stime ben più alte, e che nel caso italiano possono arrivare fino al 25% del Pil (OECD, 2019). Il carico di tale lavoro informale svolto all’interno delle mura domestiche influisce negativamente anche sul cosiddetto lavoro produttivo.
Il gap occupazionale e salariale tra donne e uomini sul mercato del lavoro è dovuto, per la maggior parte, al disequilibrio domestico ancora considerato, appannaggio femminile. Essere impegnati in un’attività lavorativa e allo stesso tempo doversi occupare di figli/e piccoli/e o parenti non autosufficienti comporta una modulazione dei tempi da dedicare al lavoro e alla famiglia che si riflette sulla partecipazione al mercato del lavoro.
Il tasso di occupazione delle madri di 25-54 anni registrato nel 2019 era infatti al 57% contro quello delle donne senza figli/e coabitanti al 72,1%. I dati peggiorano nel caso di madri con bambini/e in età prescolare che registrano un tasso di occupazione del 53% in presenza di figli/e di 0-2 anni e del 55,7% nel caso di figli/e di 3-5 anni (ISTAT, 2019).
Delle occupate, invece, nel 2019, il 38,3% delle donne 18-64enni con figli/e sotto i 15 anni sono state costrette a modificare aspetti professionali per conciliare lavoro e famiglia, contro l’11,9% di uomini. Nel dettaglio, sei donne su 10 hanno ridotto il loro orario di lavoro, mentre due su 10 ne hanno chiesto la rimodulazione.
Tali dati sono specchio di quella che può essere definita cura genitoriale, a cui va affiancata anche la quota di assistenza fornita a familiari non autosufficienti che ancora una volta, in Italia, per il 61% ricade sulle spalle delle donne.
La chiusura delle scuole di ogni ordine e grado e dei servizi di infanzia imposta durante il primo lockdown e il conseguente confinamento obbligatorio in casa ha incrementato significativamente il carico di cura che è andato a gravare ancora una volta sulle donne. Uno studio dell’Università Bicocca ha infatti registrato che durante il lockdown le donne dedicavano in media 4 ore al giorno in più ad aiutare le figlie e i figli, cercando di supplire al ruolo educativo delle scuole. Le donne, maggiormente occupate nei servizi essenziali (scuola, sanità e pubblica amministrazione), sono però anche coloro che nel 74% dei casi hanno continuato a lavorare anche al di fuori delle mura domestiche (contro il 66% degli uomini).
L’emergenza sanitaria ha inasprito le criticità proprie del nostro sistema di welfare.
I recenti dati sulla disoccupazione femminile hanno reso sempre più evidente la necessità di investire in infrastrutture sociali. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale (2019) ha illustrato come la quantità di lavoro domestico e di cura non retribuito svolto dalle donne sia inversamente proporzionale allo sviluppo economico dei paesi.
In quest’ottica il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) rappresenta un’opportunità senza precedenti per investire nel potenziamento di misure che permettano un bilanciamento dei tempi vita-lavoro, una condivisione del lavoro di cura non solo all’interno della famiglia, ma con la stessa comunità, e la rimozione degli ostacoli che impediscono alle donne di partecipare alla vita economica, sociale, culturale e politica del nostro Paese.
È necessario ripensare il sistema di welfare per rispondere ai bisogni di una popolazione che invecchia e per supportare le famiglie nella gestione della cura genitoriale, attraverso ad esempio il potenziamento dei servizi educativi 0-3 anni (che ad oggi coprono solo il 25,5% della potenziale utenza).
Le politiche volte a rendere il lavoro di cura una questione di rilevanza pubblica non devono però risolversi in mere misure di assistenza o in stanziamenti frammentarie. Devono essere ripensate in modo che possano incidere positivamente sull’occupazione femminile da un lato liberando il tempo delle donne e dall’altro offrendo loro nuovi posti di lavoro, di qualità, regolarmente ed equamente retribuiti.
È necessario superare quello che è stato definito il “modello mediterraneo” di welfare caratterizzato dalla forte centralità del ruolo delle famiglie, in particolare delle donne, e la limitata offerta di servizi pubblici di cura. Adottare un nuovo paradigma significa quindi investire in servizi pubblici, riconoscere il valore economico del lavoro di cura, e connotarlo di una responsabilità che vada oltre quella familiare, ma sia sociale e anche istituzionale. Tale cambio di paradigma non può prescindere da un cambiamento culturale necessario ad andare oltre i ruoli sociali predefiniti e stereotipatati che permetta di dare pari dignità al lavoro formale e informale e ai diversi settori economici.
L’8 marzo chiediamo di liberare il tempo delle donne, liberarle dall’obbligo di scegliere tra carriera e famiglia, liberarle da una cultura che impedisce loro di compiere in autonomia scelte che riguardano vari ambiti delle loro vite, compreso quello economico.
LAVORO DI CURA:
il lavoro che fai in casa che, se non fosse ritenuto naturalmente femminile e fosse condiviso, potrebbe essere anche piacevole.