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Le radici del sessismo interiorizzato

La violenza di genere costituisce una realtà persistente nell’ambito sociale globale, rappresentando una problematica di salute pubblica e di diritti umani che finora non ha ricevuto l’adeguata attenzione da parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica. Spesso, la violenza emerge solo in situazioni estreme, come nei casi di femminicidi, affrontati come eventi isolati e imprevedibili, senza interrogarsi abbastanza sulle circostanze precedenti e sulle responsabilità istituzionali nella protezione delle donne che hanno subito violenza. Il ciclo di violenza inizia precedentemente e riveste diverse sfaccettature, dalle forme verbali e psicologiche a quelle economiche, spesso sottovalutate a causa della normalizzazione perpetuata da una cultura maschilista e patriarcale.

Considerando che nella maggior parte dei casi gli autori di violenza sono partner o ex partner, l’uscita sicura da relazioni disfunzionali è cruciale per garantire alle donne la possibilità di riprendere il controllo delle proprie vite e allontanarsi da tali circostanze. Questa soluzione può sembrare semplice, ma è complessa a causa degli ostacoli socio-economici e culturali.

Ogni volta che si raccontano storie di violenza nelle relazioni, l’opinione pubblica tende a colpevolizzare la vittima, insinuando che avrebbe dovuto lasciare il partner e che in qualche modo ha contribuito a rimanere in un’abusive relazione. Questi giudizi superficiali trascurano le sfide pratiche affrontate da una donna che desidera lasciare una situazione di abuso, spesso caratterizzata dalla privazione dell’autonomia economica, lavorativa e psicologica.

Le istituzioni trascurano il fatto che una donna per poter uscire da una situazione di violenza domestica ha bisogno di un reddito sufficiente, un lavoro sicuro e dignitoso, una casa e servizi pubblici funzionanti.

Le istituzioni trascurano il fatto che le donne che cercano di sfuggire a una situazione di violenza domestica hanno bisogno di risorse come reddito sufficiente, lavoro sicuro e dignitoso, alloggio e servizi pubblici adeguati. Agevolare il ritorno all’autonomia in un ambiente sicuro rappresenta un impegno collettivo, ma è altrettanto importante investigare sulle radici di un fenomeno sociale profondamente radicato e spesso minimizzato. La richiesta di maggiore responsabilità da parte dello Stato nella protezione delle donne che hanno subito violenza è motivata dall’aver sottovalutato una cultura che giustifica, maschera e normalizza la violenza, scusando comportamenti dannosi intrinsecamente legati ad un approccio maschilista. Identificare le radici della violenza nella vita quotidiana è il primo passo verso una trasformazione duratura del modello sociale.

Tutte noi ci siamo trovate ad ascoltare battutine sulla presunta inferiorità femminile, abbiamo abbassato lo sguardo per evitare gli apprezzamenti molesti di qualche passante, abbiamo visto colleghi promossi mentre ci chiedevano se avessimo l’intenzione di avere figli. Siamo state giudicate per il nostro comportamento e se non abbiamo vissuto in prima persona violenze o molestie, conosciamo qualcuna che l’ha subita. Viviamo in una società permeata di sessismo e di discriminazioni, ed è un dato inconfutabile.

Nonostante i chiari indizi vissuti sulla nostra pelle sommati ai numeri che raccontano la disparità di genere (l’Italia occupa la posizione 79 del ranking mondiale del Global Gender Gap 2023 del World Economic Forum), esiste ancora una forte resistenza a ricondurre questo fenomeno a un problema culturale. I numeri sull’occupazione femminile, sulla violenza di genere, sulla povertà ci spaventano, ma è raro affrontare la questione considerando che questo squilibrio si mantiene grazie agli stereotipi di genere tramandati da generazione in generazione.

Guardiamo la differenza di stipendio tra uomini e donne come un problema da risolvere, ma non ci stupiamo quando una neo mamma torna dalla maternità e le si chiede con chi ha lasciato il bambino. Osserviamo con stupore il basso tasso di occupazione femminile, ma ancora pensiamo che gli uomini non siano bravi a fare le pulizie di casa o a prendersi cura dei figli. Contiamo i numeri di femminicidi e ci sentiamo toccate dalle storie di violenza, ma pensiamo sia normale tollerare comportamenti maschili aggressivi, perché per il bene della famiglia bisogna “ingoiare il rospo”.

Ripetiamo queste idee in modo automatico, senza riflettere sulla loro origine o ragionevolezza, e senza considerare il percorso distruttivo che possono seguire certe credenze apparentemente innocue. Gli stereotipi di genere sono, infatti, l’inizio del ciclo incessante di pregiudizi, discriminazioni e violenze. Tutto parte dalle convinzioni che ci sono state trasmesse come se fossero la naturale realtà – le donne hanno l’istinto materno – ma poi diventano pregiudizi – da quando sei diventata madre ti vedo meno attenta al lavoro – e infine si trasformano in vere e proprie discriminazioni – non assumo donne in età fertile.

Crescendo in un contesto sociale, familiare, lavorativo e culturale che afferma costantemente stereotipi, aspettative e ruoli di genere, è inevitabile assorbire idee di stampo sessista. Può sembrare incredibile che una donna difenda la superiorità maschile, e raramente succede in modo esplicito, ma è proprio in modo subdolo e ignaro che si manifesta. E per sentirsi al sicuro in una società patriarcale, adeguarsi alle regole sembra una strategia avvincente. Tuttavia, non basta seguire le norme di comportamento, prima o poi ogni donna sarà giudicata, ignorata, esclusa o soggetta a episodi di violenza. Lavoriamo inconsapevolmente per mantenere uno status quo che non gioca a nostro favore, allora tanto vale dare le dimissioni di questo ruolo, partendo dal riconoscimento di questi automatismi.

Maternità dovuta 

Per garantire che le donne continuino a presentarsi all’ufficio del patriarcato ogni mattina, sono state create delle linee guida che, nonostante non siano scritte da nessuna parte, attraversano l’immaginario comune e definiscono il modello femminile auspicabile e utile al mantenimento del divario di genere.

La prima tra tutte è l’esaltazione della maternità come il più grande traguardo della vita di ogni donna. Un messaggio che arriva nella prima infanzia, rappresentato simbolicamente dai giocattoli e dalle storie per bambini, oltre che dalle figure femminili di riferimento, sempre accudenti e disponibili. L’equazione donna=madre ha plasmato la percezione del nostro ruolo nella società, tanto che raramente si domanda se abbiamo voglia di avere un figlio, ma sembra un dato di fatto: quando lo fai?

Diventare madre assume un’importanza superiore rispetto a tutto il resto. Donne che hanno ottenuto risultati brillanti nel lavoro vengono spesso etichettate prima come madri e solo successivamente per le loro realizzazioni professionali, ed è così che nascono figure come mamme scienziate, mamme atlete, mamme astronaute, inesistenti nel panorama maschile (avete mai sentito papà primo ministro?). Il vincolo indissolubile tra il femminile e la maternità ha conseguenze concrete nel percorso di emancipazione e dell’espressione delle potenzialità di ciascuna donna. Mentre il percorso genitoriale maschile convive armoniosamente con lo spettro professionale e di crescita individuale, per le donne è sufficiente essere madri in potenziale per vedersi edificare barriere capaci di ostacolare lo sviluppo personale e socio-economico.

Convinte che sia la strada naturale da seguire, le donne si sono accollate il ruolo di prime responsabili per la crescita dei figli e la società intorno non ha fatto sforzi per liberarle, lasciando il 75% del lavoro di cura sulle spalle femminili. Questo incarico ci è stato proposto come il più bello della nostra vita, ciò che ci completerà in quanto donne, ma è, ahimè, incompatibile con le dinamiche del mercato del lavoro, e le madri (o potenziali tali) lo sanno bene: “Hai intenzioni di avere figli?” “Ma come farai a gestire il bambino?” “Non ti posso dare la promozione adesso che sei madre”. Le conseguenze sono stipendi più bassi e disoccupazione femminile alle stelle, fattori che mettono le donne in condizioni di rischio e fragilità, sempre più povere e dipendenti dai propri compagni, ma quantomeno, che fortunate, hanno scoperto cos’è il “vero amore”.

La minaccia della solitudine

Per raggiungere questo grande obiettivo, però, le donne inciampano in un altro tranello intrecciato con cura nella nostra identità. Perché dopo la nascita di un figlio esiste soltanto un altro giorno considerato “il più bello” nella vita di una donna, quello del matrimonio. Per molto tempo sono state le leggi a determinare che una donna senza un marito non aveva diritti o libertà, ma non è bastato abbattere gli ostacoli giuridici per superare i pregiudizi verso le donne “rimaste sole”. Le convenzioni sociali ancora giudicano spietatamente le “zitelle”, trasformando la condizione di single in una grande minaccia per qualsiasi donna.

Luoghi comuni, consigli non richiesti e avvertimenti convincono le donne a cercare una relazione romantica come ancora di salvezza, un luogo teoricamente sicuro, lontano dalla solitudine. Ma questa minaccia abbinata alla frequente situazione di dipendenza economica è la tempesta perfetta che tiene tante donne in condizioni di estrema fragilità, e tante volte, purtroppo, di violenza.

Se ci è sempre stato detto che il ruolo di madre è quello più importante della nostra vita e che soltanto con un uomo a fianco abbiamo valore in questa società, finiamo per credere che al di fuori di questo non ci sia posto per noi. Non mettiamo in conto, però, che il posto a noi assegnato è scomodo, stretto e poco sicuro.

Le relazioni disfunzionali spesso affondano le radici in queste credenze che perpetuano i ruoli di genere all’interno dei rapporti. La donna è spesso chiamata a sacrificarsi “per il bene della relazione”, mentre l’uomo si arroga il diritto di dettare le regole. Fino al 1975, il diritto di famiglia italiano ha sostenuto questa pratica, eppure, nonostante siano trascorsi 48 anni da allora, alcune di queste dinamiche persistono saldamente nell’immaginario collettivo. Siamo passati attraverso anni in cui le donne hanno conquistato il diritto all’indipendenza e all’autonomia, ma le relazioni sono ancora infuse di sessismo, soprattutto da parte di uomini che resistono all’evoluzione dell’emancipazione femminile. Di fronte a una donna che rifiuta di essere sottomessa, reagiscono con violenza. D’altro canto, nonostante i passi in avanti, l’idea di tollerare determinati comportamenti “per il bene della famiglia” è ancora diffusa, e se la donna non la nutre, è spesso la comunità circostante a minimizzare la violenza.

Le condizioni economiche e strutturali giocano un ruolo essenziale nell’uscita dalla trappola della violenza, ma sono intrecciate con stereotipi di genere, tradizioni sessiste e un sistema culturale patriarcale che imprigiona le donne a vari livelli.

Smantellare le radici culturali sessiste non è un compito facile, serve uno sforzo di coscienza individuale per dare le dimissioni dal ruolo di poliziotte del maschilismo e aiutare le altre a donne a fare altrettanto. Superare questi pregiudizi può non solo migliorare la vita delle singole donne, ma anche promuovere una società più equa e inclusiva. Riconoscere i propri bias interiorizzati, sfidare gli stereotipi di genere e promuovere una cultura di rispetto e inclusione sono passi fondamentali ma allo stesso tempo servono azioni a livello istituzionale per promuovere un percorso di reale autonomia e emancipazione femminile, garantendo il diritto di vivere una vita libera e lontana dalla violenza.

Le loro vite rischiano di rimanere congelate da politiche insufficienti.

Non lasciamole sole!

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Immagini: Sara Ciprandi.

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